in aggiornamento
A CURA DI SIMONA IACOELLA E ANNA RITA RAVENNA
GLOSSARIO FISIG 2016
ISTITUTI CHE HANNO PARTECIPATO ALL’ELABORAZIONE DEL GLOSSARIO
Associazione per lo Sviluppo dell’Individuo e della Comunità (ASPIC)
Direttore: Edoardo Giusti – Claudia Montanari
Sede: Via Vittore Carpaccio, 32 – Roma
www.aspic.it
Centro Studi Psicosomatica/Istituto Gestalt Analitico (CSP/IGA)
Direttore: Stefano Crispino
Sede: via Padre Semeria 33 – 00154 Roma
www.centrostudipsicosomatica.it
Centro Studi di Terapia della Gestalt(CSTG)
Direttori: Riccardo Zerbetto – Donatella De Marinis
Sede Legale: via Montanini 54 – 53100 Siena – tel/fax 057745379
Sede Didattica di Milano: via Mercadante 8 – 20124 Milano – tel/fax 0229408785
Sede Didattica di Siena: Località Podere Noceto – 53010 Ville di Corsano (Siena)
E- mail: segreteria@cstg.it – www.cstg.it
Fondazione Italiana Gestalt, Scuola di formazione: Società Italiana Gestalt (SIG)
Direttori: Paolo Greco – Roberta Melis
Sede: Viale di Trastevere 108 Roma
www.sigroma.com
Istituto Psicoterapia della Gestalt Espressiva (IPGE)
Direttori: Anna Maria Acocella – Oliviero Rossi
Sede Amministrativa: Via Costantino Morin n° 24 (Roma)
Sedi Didattiche: Ponte San Giovanni – Perugia, Via Luigi Catanelli n° 23;
Via Statilio Ottato n° 33 – Roma
E-mail: istitutogestaltespressiva@gmail.com
Sito: www.psicoterapiadellagestalt.it
Istituto di Gestalt HCC ITALY (HCC ITALY)
Direttore: Margherita Spagnuolo Lobb
Sede legale e amministrativa: Via San Sebastiano, 38 – Siracusa
Sedi periferiche:
Via A. Lincoln, 19 – Palermo
Via G.P. da Palestrina, 2 – Milano
Tel. (+39) 0931.48.36.46 – Fax. (+39) 0931.46.56.68
E-mail: info@gestalt.it
www.gestalt.it
Le voci sotto il nome di questo Istituto sono presenti in versione più ampia in:
www.gestaltpedia.it
Istituto di Gestalt Therapy (hcc Kairos)
Direttori: Giovanni Salonia – Valeria Conte
Sede legale, amministrativa e didattica: Via Virgilio, 10 – Ragusa
Sedi didattiche: Via Catania, 1 – Roma / Via A. Lazzari, 10 – Mestre(VE)
Tel.(+39) 0932 682109 Fax (+39) 0932 682227
Una versione più approfondita dei lemmi di questo istituto si trovano nel
«Dizionario GTK», pubblicato come secondo numero monografico
della Rivista di Psicoterapia GTK scaricabile gratuitamente dal sito www.gestaltherapy.it
Istituto di Psicoterapia della Gestalt e di Analisi Transazionale (IGAT)
Direttore: Antonio Ferrara
Via Pirro Ligorio, 20 – 80129 – Napoli
E-mail: istituto.igat@gmail.com
www.igatweb.it
Istituto Gestalt Firenze (IGF)
Direttori: Giovanni Paolo Quattrini – Anna Rita Ravenna
Piazzale delle Medaglie d’Oro, 20 – 00136 Roma
Via del Guarlone, 69 – 50100 Firenze
e-mail: roma@igf-gestalt.it
Istituto Gestalt di Puglia (IGP)
Direttori: Alexander Lommatzsch – Caterina Terzi
Via De Simone, 29 73010 Arnesano (LE)
e-mail: igp@apuliagestalt.it, igpuglia@pec.it
www.apuliagestalt.it
Istituto Gestalt Romagna (IGRO)
Direttori: Elena Danesi – Efisio Temporin
Sede: Via Madonna dello Schiopo, 415 – Cesena
www.istitutogestaltromagna.it
e-mail: segreteria@istitutogestaltromagna.it
Tel/Fax 0547/481456
Scuola Gestalt di Torino (SGT)
Direttore: Mariano Pizzimenti
Sede: Via O. Revel, 6 – Torino
www.scuolagestaltditorino.it
Scuola Di Specializzazione In Psicoterapia Gestaltica Integrata (SiPGI)
Direttore: Raffaele Sperandeo
Via Dante, 1/D – Torre Annunziata (NA)
Via Santi Giacomo e Filippo, 35/6 – Genova
Via del Legno, 2 – Trapani (sede collaborativa)
Email: segreteria.SiPGI@gmail.com
www.SiPGI.it
Ringraziamenti
Si ringraziano i Direttori e i collaboratori che hanno contribuito all’elaborazione del Glossario:
Associazione per lo Sviluppo dell’Individuo e della Comunità (ASPIC)
Edoardo Giusti, Claudia Montanari, Antonio Iannazzo, Olimpia Armenante, Florinda Barbuto, Vera Cabras, Anna Capponi, Roberto Costantini, Katia De Luca, Giada Fiume, Sergio Giannini, Antonio Mancinella, Raffaele Marangio, Marco Pacifico, Carmine Piroli, Enrichetta Spalletta
Centro Studi Psicosomatica/Istituto Gestalt Analitica (CSP/IGA)
Stefano Crispino, Francesca Fulceri, Adelaide Gargiuto, Giovanna Larghi, Elisa Mori, Rosa Spennato, M. Carmen Viccaro
Centro Studi Terapia Della Gestalt (CSTG)
Aschei Marco (Agito), Bergomi Sara (Deflessione), Bertoldo Enrico G. (Amplificazione, Corpo), Bianchi Laura (Presente), Carrera Giuseppina (Consapevolezza), Corvi Cristina (Polarità), Dei Paola (Adattamento creativo, Principi di Rubin e Figure Ambigue in condivisione con Aspic, Personalità), De Marinis Donatella (Transfert), Erba Germana (Eccitazione, Egotismo), Imparato Luisella (Retroflessione, Teatro), Persico Anna Silvia (Introiezione), Poletto Anna (Confluenza), Raffagnino Rosalba (Relazione dialogica), Ratti Giuliana (Dramma), Rinaldi Valentina (Processo), Ronzani Silvia (Fenomenologia), Savoldi Giusy (Sostegno), Veronesi Ilaria (Responsabilità, Proiezione), Sisto Patrizio (Vuoto), Zerbetto Riccardo (Agito, Amplificazione, Contatto, Corpo, Feedback e Gruppo in collaborazione con Aspic, Fenomenologia, Gestalt, Polarità, Processo, Relazione dialogica, sogno, teoria del sé, vuoto)
Fondazione Italiana Gestalt, Scuola di formazione: Società Italiana Gestalt (SIG)
Paolo Greco, Emanuela Venanzoni
Istituto di Gestalt HCC ITALY (HCC ITALY)
Teresa Borino, Pietro A. Cavaleri, Gianni Francesetti, Daniela Lipari, M.Albino Macaluso, Susanna Marotta, Annalisa Molfese, Valeria Rubino, Margherita Spagnuolo Lobb, Silvia Tinaglia, Silvia Tosi
Istituto di Gestalt Therapy hcc Kairos (hcc Kairos)
Elisa Amenta, Valeria Conte, Laura Leggio, Rosaria Lisi, Grace Maiorana, Aluette Merenda, Gaspare Orlando, Giovanni Salonia, Antonio Sichera, Giovanna Vella, Carmen Ventura.
Istituto Gestalt e Analisi Transazionale (IGAT)
Piero Abbondati, Carolina Alfano, Giovanni Botta, Massimiliano De Somma, Antonio Ferrara, Mara Festa, Ida Franzese, Veronica Iorio, Bianca Lama, Fabio Martino, Simona Mazziotti, Maria Grazia Milone, Filomena Petrazzuolo, Santina Pierro, Carmen Pirozzi, Salvatore Torsi, Massimiliano Troisi
Istituto Gestalt Firenze (IGF)
Giovanni Paolo Quattrini, Anna Rita Ravenna, Simona Iacoella
Istituto Gestalt di Puglia (IGP)
Mirko Antoncecchi, Maurizio Daggiano, Nino Geniola, Fabiana Gigliola, Alexander Lommatzsch, Terzi Caterina
Istituto Gestalt Romagna
Elena Danesi, Efisio Temporin
Istituto Psicoterapia della Gestalt Espressiva (IPGE)
Anna Maria Acocella, Edoardo Brutti, Oliviero Rossi
Scuola Gestalt di Torino (SGT)
Mariano Pizzimenti
Scuola di specializzazione in Psicoterapia Gestaltica Integrata – SiPGI
Marco Architravo, Raffaele Sperandeo
ACCETTAZIONE
Rogers sottolinea l’importanza di un orientamento non direttivo come modalità di rapportarsi all’altro. Il terapeuta non deve fare domande né interpretazioni ma deve accettare fiduciosamente ciò che il paziente dice, rispettandone la realtà e considerando ciascun aspetto come parte del paziente stesso. Secondo Rogers quando il cliente sente che nei suoi confronti esiste un’accettazione positiva incondizionata, in un contesto di comprensione empatica la sua tendenza naturale verso uno sviluppo complesso e completo viene promossa e facilitata. L’accettazione incondizionata del cliente viene comunicata dal terapeuta attraverso la comprensione empatica accettante.
Riguarda, dunque, l’abilità a comunicare l’accoglienza in opposizione al rifiuto che mina la fiducia di base e la stima di sé. Accogliere è un comportamento complesso che occupa tutta la prima parte di una psicoterapia per promuovere e favorire un legame affettivo e creare un’alleanza operativa con il cliente. L’atteggiamento risiede nell’ospitalità per una gradita presa in carico. Un’affettuosa disponibilità all’incontro che genera un contesto clinico utile per il cambiamento, favorisce la domanda e motiva il soggetto intenzionato ad iniziare l’aderenza ad un trattamento (89, 90, 109, 115, 118, 101) (ASPIC)
L’accettazione di sé, dell’ altro, di quello che è già accaduto e come tale immodificabile, diviene la via maestra per apprendere la tolleranza e poter così, sostenere gli opposti o le polarità, o le nostre parti scisse e negate. Questo percorso innesca la possibilità del cambiamento attraverso la propria narrazione del qui ed ora che può, accettando, avere uno sguardo altro anche sul proprio passato, assumendosi la responsabilità di modificare il proprio presente (219,61) (CSP/IGA)
Secondo A. R. Beisser è l’accettazione, piuttosto che lo sforzo di trovare nuovi modi di essere, che favorisce il cambiamento. È un paradosso, ma il lasciarsi andare a ciò che si è e al libero fluire della coscienza, facilita l’emergere della saggezza naturale. In tale stato è possibile il contatto con nuove comprensioni e consapevolezze che non avevano spazio nella confusione di una mente impegnata a trovare soluzioni tra i conflitti, responsabili di dolore e sofferenza. L’accettazione rilassa, dà fiducia, apre alla coscienza vuota e alla creatività naturale (IGAT)
L’accettazione è la dimensione psicologica mediante la quale il terapeuta si predispone verso la sospensione di qualunque forma di giudizio nei confronti del paziente. Ciò ha una valenza fortemente terapeutica in quanto determina nel paziente l’esperienza di essere accolto in ogni sua parte: quelle più disfunzionali come quelle più attigue alle proprie risorse. L’accettazione quindi deve proporsi come incondizionata e si configura come uno dei presupposti fondamentali per il raggiungimento di una buona alleanza terapeutica (281) (SiPGI)
ADATTAMENTO CREATIVO
Un adattamento creativo dell’organismo all’ambiente è un contatto autentico con se stessi e con gli altri. Ogni individuo ha una maniera tipica di reagire nel qui ed ora in funzione del proprio stile personale agli stimoli ambientali interni e esterni. Tale processo continuo di adattamento creativo dell’uomo costituisce il Sé. L’adattamento creativo è il “prodotto” del Sé, quel processo che accade al confine-contatto tra l’organismo e il suo ambiente.
Il disagio nasce quando il naturale processo di autoregolazione va fuori ritmo e il disadattamento si sostituisce all’adattamento creativo. Ogni adattamento creativo costituisce una nuova dimensione più adattiva, funzionale all’accrescimento e integrazione dell’individuo nel suo essere al mondo nella sua unicità e originalità. Uno degli obiettivi della psicoterapia della Gestalt è l’aumento di consapevolezza del proprio adattamento creativo (42, 86, 104, 339) (ASPIC)
L’Adattamento è il processo che mette in interazione i bisogni dell’organismo e gli stimoli ambientali. La creazione è legata alla novità, è la scoperta di una nuova soluzione, la creazione di una nuova configurazione, di una nuova integrazione. Adattamento e creazione appaiono come due poli complementari di uno stesso processo ciascuno è necessario all’altro per mantenere un equilibrio sano e dinamico (206, 176, 149, 48, 49) (CSP/IGA)
Nella continua interazione tra Organismo-Individuo/Ambiente a cui ci rimanda la “teoria del sé” assistiamo ad una maggiore o minore efficacia nelle funzioni di adattamento reciproco per le quali non è solo l’Individuo che si adatta all’ambiente (modalità definita anche ego sintonica o autoplastica) come l’ambiente all’individuo (ego sintonica o alloplastica). Questo aspetto importante collegato alle “funzioni del sé” si collega al “processo morfogenetico”. Sono noti, nella Psicologia della Forma, i meccanismi percettivi autogeni che ci portano a completare una gestalt incompiuta. Non quindi pura volizione, ma accadimento che appartiene all’ordine della natura e delle sue operazioni autoplastiche. Di qui l’attenzione per la dialettica figura/sfondo nel perenne rapporto fra i due elementi costitutivi della polarità in una interazione non-contrappositiva. Tutti i fenomeni vitali in quest’ottica, divengono espressione di questa alternanza tra momento “anamorfico” in cui una realtà emerge in figura da uno sfondo più indifferenziato, ed a questo ritorna, dopo essersi definito, in-dividuato, nella fase “catamorfica”. A questo processo segue un nuovo processo morfogenetico, una nuova gestaltung e così via nel perenne fluire, nel panta rei (Eraclito) del continuo divenire e dissolversi. Vivere significa essere partecipi di questa dinamica del perenne divenire, fatto di alternanze in equilibrio fra adattamento e creatività laddove la funzione del Sé diviene quella di individuare modalità di interazione più personali e sganciate dagli stereotipi preesistenti. Tutto questo si traduce nel lavoro clinico in un accompagnamento di un processo in atto nel suo naturale evolversi e che è di valido supporto anche nel lavoro di accompagnamento alla morte come mostrano i lavori di molti gestaltisti in una prospettiva che unisce Oriente e Occidente attraverso quel vuoto fertile di cui Friedlander si è fatto portavoce (219, 280, 339, 387) (CSTG)
“E’ il processo che mette in interazione i bisogni dell’organismo con le risorse ambientali” (280, p. 41). “Parliamo dell’adattamento creativo come della funzione essenziale del sé, o meglio, il sé è il sistema degli adattamenti creativi” (219, p. 58). “L’adattamento creativo è il risultato della spontanea forza di sopravvivenza che consente all’individuo di differenziarsi dal contesto sociale, ma anche di esserne pienamente e significativamente parte. Ogni comportamento umano, anche quello patologico, è considerato un adattamento creativo” (342, p. 39). “Il bisogno dell’organismo cerca un oggetto, cerca una risposta dell’ambiente. […] La creazione è legata alla novità: è la scoperta di una nuova soluzione, la creazione di una nuova configurazione, di una nuova integrazione a partire dai dati disponibili. Adattamento e creazione appaiono come due poli complementari di uno stesso processo: ciascuno è necessario all’altro per mantenere un equilibrio sano e dinamico. Il solo adattamento non integra alcuna novità del campo e confina l’organismo nella ripetizione nevrotica. La creazione senza adattamento non ha alcun radicamento nel “reale” e può corrispondere alla scissione psicotica. L’adattamento garantisce la dimensione del reale e dell’adeguamento, la creazione apre la porta alla dimensione della fantasia e all’ampliamento delle possibilità. […] Con l’adattamento, il soggetto viene trasformato dall’ambiente, o si trasforma al contatto con esso. Aggiungendo l’aggettivo qualificativo ‘creativo’, Perls e Goodman dichiarano che nella stessa operazione l’uomo è creatore del mondo e trasforma il mondo. Trasformato e trasformatore. Forma media. L’adattamento creativo e il suo ripristinarsi possono essere considerati dei concetti-chiave nella psicoterapia della Gestalt poiché ne costituiscono il fine e insieme il mezzo privilegiato” (280, pp. 41-42). (HCC ITALY)
È il processo che permette l’emergere della soluzione di un conflitto al confine di contatto nel campo Organismo/Ambiente. Si dispiega nella dinamica figura/sfondo e implica il funzionamento armonico delle funzioni del Sé (219 p. 58) attraverso l’integrazione tra l’adattamento della funzione-Personalità e la creatività della funzione-Es.
Se quando emerge un conflitto tra queste due funzioni, tale polemos viene vissuto fino in fondo, la funzione-Io crea una soluzione inedita (adattamento creativo) che risulta positiva, perché inclusiva delle due funzioni in conflitto e creatrice di una nuova gestalt al di là della logica vinti-vincitori (321, p.178). Se ‘vincesse’ la funzione-Es produrrebbe antisocialità e impulsività, così come si produrrebbe repressione se ‘vincesse’ la funzione-Personalità (306). Solo tali soluzioni possono essere assimilate e produrre crescita nell’Organismo. Se un diabetico ha voglia di dolci, la lotta tra le due funzioni (“Cosa sento” e “Cosa sono diventato”) sarà il terreno dove la funzione-Io inventerà una soluzione nuova che, se autentica, sarà avvertita come coerente per ambedue le funzioni poiché coniuga questa attrazione (funzione-Es) con la propria identità di diabetico (funzione-Personalità) che risulta dall’aver assimilato la malattia e dal considerare i rischi legati ad essa (322). Se queste due funzioni sono disturbate, la funzione-Io sarà assente e il conflitto si cronicizzerà producendo frustrazione e non crescita. Nei conflitti nevrotici, infatti, la funzione-Io non può portare avanti il proprio compito (identificare e alienare la novità che emerge) a causa del malfunzionamento o della funzione- Es (non sa quello che sente) o della funzione-Personalità (valori non assimilati, introietti, idealizzazioni, chiacchiere) (306) (hcc Kairos)
La caratteristica fondante dell’adattamento creativo è la responsabilità, intesa in senso etimologico, “re-spondere”, come capacità di dare risposte congruenti con gli stimoli (203). L’individuo responsabile “risponde agli stimoli in maniera coerente con la realtà effettiva, piuttosto che attraverso schemi precostituiti che interrompono le risposte creative” (64). Così facendo recupera il bambino naturale che segue principi di preferenzialità, alla ricerca di soluzioni creative connesse all’autoregolazione organismica. Guidato da una saggezza implicita, l’organismo mette in atto naturalmente le sue scelte rispettando principi conservativi di sopravvivenza e di soddisfazione. La capacità creativa è connessa ad una intelligenza che permette di operare scelte rispondenti alle necessità del qui ed ora.
Incontrando la nostra natura superiamo lo schema adattivo dei copioni di vita e permettiamo il manifestarsi di nuove soluzioni di contatto con realtà interne e ambientali.
Tramite l’adattamento creativo l’individuo si fonde con il contesto e contemporaneamente si differenzia da esso, favorendo altre forme di esistenza personale e conseguenti riorganizzazioni del mondo esterno.
Nell’incessante alternarsi di novità e routine, che dà origine al processo di assimilazione e crescita, si manifestano le possibilità di essere e trasformarsi, insite nel contatto fra organismo e ambiente (IGAT)
Capacità dell’organismo di far fronte ai cambiamenti dell’ambiente con risposte originali, cioè con nuovi adattamenti responsabili (inteso come respons ability, abilità a rispondere) e personali alle richieste del mondo esterno e interno. Ogni nuova possibilità di adattamento creativo predispone a possibili cambiamenti di configurazione interna della persona in base alle risposte ottenute dal mondo circostante; questa capacità creativa si genera al confine di contatto tra sé e il mondo ed è un nuovo tentativo (per questo in gestalt si definisce creativo) messo in atto dall’organismo per ottenere soddisfazione nel relazionarsi con il mondo (IPGE)
AGGRESSIVITA’
Termine generale riferito ad atteggiamenti e comportamenti in cui l’energia è diretta verso l’esterno sotto forma di minaccia, ostilità o violenza. Nelle forme moderate si manifesta come insensibilità ai bisogni degli altri, indifferenza alle norme sociali di cortesia, prepotenza verbale.
Secondo Perls è una pulsione di vita necessaria all’assimilazione attiva del mondo esterno. Aggredire, ad-gredior, andare-verso, attivarsi in direzione di qualcuno o qualcosa. L’aggressività di cui parla la Gestalt non ha nulla a che vedere con la violenza, piuttosto assomiglia all’atto del mordere e del masticare un cibo prima di ingoiarlo.
Una forma moderata di aggressività/assertività è dunque legata al mordere e distruggere per creare una nuova Gestalt. L’aggressività è una caratteristica essenziale del mangiare. Senza di essa non possono esserci né nutrizione, né digestione, tantomeno l’assimilazione. Se non ci fosse lo sgretolamento, la distruzione, non potrebbe esserci l’assimilazione che porta alla crescita.
L’aggressività ‘sana’ rappresenta un giusto rispetto del confine con l’altro, senza ritirarsi dal contatto, mettendo in second’ordine i propri bisogni, e senza invadere l’altro imponendo le proprie necessità (96, 218) (ASPIC)
“Considerare l’aggressività come una forza fondamentale per la sopravvivenza dell’essere umano e anche per una risoluzione dei problemi sociali che non sacrifichi a priori i bisogni individuali, implica un’antropologia positiva: aperta alla possibilità di integrazione della fisiologia con il rispetto delle regole sociali, quindi fiduciosa nella capacità di autoregolazione sociale dell’essere umano” (342, pp. 130-131). “L’esperienza fisiologica dell’ad–gredere, che sostiene l’esperienza organismica più generale dell’andare verso l’altro, necessita dell’ossigeno, ossia di essere bilanciata e sostenuta dall’espirazione, momento di fiducia verso l’ambiente in cui l’organismo lascia andare la propria tensione e il controllo per poi riprendere fiato (e ossigeno) in modo spontaneo e autoregolato” (342, p. 38). “In ogni aggressività dunque è possibile rintracciare un’intenzionalità di contatto, e in ogni conflitto da essa risultante esiste una potenzialità di migliorare il contatto” (342, p. 132). “Oggi l’aggressività è percepita dagli individui con una certa “liquidità”, senza il supporto necessario per renderne funzionale l’espressione nel contatto: manca il ground di sicurezze scontate che deriva dai contatti precedenti assimilati” (traduz. da: 341, p. 36). “Il sentimento di aggressività, la forza positiva di sopravvivenza che F.Perls indicò come ciò che la società aveva bisogno di riconoscere per sostenere il potere creativo di ogni individuo e risolvere il problema della gestione dei conflitti sociali, personali e gruppali, oggi va ripensato in termini di mancanza di ground nell’esperienza di contatto. Il problema clinico non è più sostenere l’aggressività nel contatto, ma sostenere la relazione affinché il sentimento di aggressività possa trovare un contenimento relazionale solido per orientarsi nel contatto” (341, p. 37) (HCC ITALY)
Perls si riferisce all’aggressività orale come alla naturale capacità auto-affermativa dell’Organismo (O.) nel suo rapporto con l’Ambiente (A.). Tale tendenza si esprime attraverso l’attività prototipica della masticazione, che implica la capacità di aggredire il cibo e la realtà, anziché ingoiarli acriticamente e consente all’individuo di realizzare con l’ambiente uno scambio attivo. Tali concettualizzazioni nascono da una geniale intuizione sulla teoria evolutiva: i coniugi Perls si accorsero che la dentizione si sviluppa molto prima di quanto avesse previsto Freud (218). L’enfasi su tale scoperta portò alla creazione di un nuovo paradigma di comprensione della condizione umana (in particolare i processi di apprendimento e di cambiamento) e, quindi, anche dello sviluppo del bambino. L’aggressività sana (non legata primariamente alla distruzione e alla frustrazione) viene vista, nella terapia e nella vita, come istanza di autoregolazione che rende inutile il ricorso ad un’istanza esterna come il Super-Io (317). Salonia, a partire da una rilettura corporeo-relazionale della teoria evolutiva freudiana, contesta l’affermazione della Gestalt Therapy che l’aggressività dentale scoperta da Perls implichi l’anticipazione dell’aggressività della fase anale e intuisce che si tratta di un altro tipo di aggressività, diversa da quella descritta da Freud. Questo errore, sostenuto da Perls e dalla comunità gestaltica ha portato ad una confusione tra aggressività sana e potere sano. Salonia distingue tra l’energia/aggressività fisiologica presente nella fase orale connessa con l’esperienza della fame e della sopravvivenza e l’energia/potere della fase anale connessa con l’esercizio del potere sul piano relazionale (303). Si tratta di situazioni relazionali e di fasi evolutive diverse, con un differente coinvolgimento del corpo, con conseguenze sia sulla crescita che sullo stile relazionale. (293, 298, 317) (hcc Kairos)
Detto in termini digitali, l’aggressività è l’emozione relativa alla conquista (trionfo) e alla difesa (rabbia) di un territorio: questo per l’individuo in questione diventa un oggetto vero e proprio, su cui investe il senso del possesso, l’aggettivo mio! In funzione della sopravvivenza è evidente la differenza fra avere un territorio (orto, giro di clienti, casa, ecc.) oppure no. In termini analogici la territorialità si estende anche a aree affettive, per cui una persona amata può essere vissuta come una ‘proprietà’, e questo comporta implicazioni emotive rilevanti e non sempre facili da gestire (IGF)
Deriva dal latino ad-gredior, andare verso l’altro; in Gestalt è considerata una pulsione necessaria all’assimilazione attiva del mondo esterno. L’aggressività di cui parla la Gestalt non ha nulla a che vedere con la violenza, piuttosto assomiglia all’atto del mordere e del masticare un cibo prima di ingoiarlo, è una funzione fondamentale che permette l’assimilazione attiva del mondo, cioè la capacità di stare criticamente nell’esperienza chiedendosi attivamente l’effetto che fa, senza introiettare, o in questo caso ingoiare, passivamente l’esperienza del mondo e traendone benefici e soddisfazione dei propri bisogni. L’aggressività è anche una pulsione fondamentale dello stare in relazione con l’altro, essa infatti ci permette di stare al confine di contatto con l’altro in un continuo gioco di protezione dei propri confini e invasione dei confini altrui; senza questo movimento (andare verso e la sua polarità opposta re-gredior, rinculare, andare indietro) non ci sarebbe relazione e contatto, per questo in Gestalt l’aggressività è considerata una spinta vitale dell’organismo (IPGE)
Perls, riprendendo il significato etimologico di aggressività (cioè “andare-verso”), si distaccò dalla psicoanalisi e a livello evolutivo teorizzò una nuova tappa fisiologica: la comparsa dei denti nel lattante. Essa corrisponde alla nascita di una nuova capacità psicologica fondamentale per l’essere umano perché collegata alla creatività. Questa teoria evolutiva si fonda su una visione dell’aggressività positiva in quanto legata all’energia vitale del mordere e alla capacità di destrutturare la realtà per creare una nuova gestalt. Sostenere l’aggressività e la possibilità di non ritirarsi prematuramente dal conflitto vuol dire avere fiducia nelle potenzialità presenti nel contatto con l’ambiente. Per Freud invece la lotta tra es e super io, tra l’uomo e la società, porta alla guerra e alla distruzione dell’ordine sociale.
In una prospettiva intercorporea vi sono varie forme di aggressività oltre a quella dentale, che si radicano in particolari zone del corpo, e che danno vita a movimenti relazionali specifici: aggressività orale (si radica nella bocca implica un portare a sé l’ambiente tutto intero senza masticarlo ed è presente nella seduzione, nelle aspettative, nella pretesa, nell’ubbidienza alle regole: in queste forme di contatto non c’è nessuna destrutturazione diretta dell’ambiente), anale (si radica nell’ano e implica il trattenere/allontanare l’altro, sporcare e distruggere (sputare, lamentarsi, insultare, fare disordine, ecc), respiratoria (riguarda i vari diaframmi e l’apertura/chiusura tra individuo e ambiente) e, infine, aggressività sessuale (si radica nei genitali e implica lo scambio intercorporeo e la creatività) (SGT)
AGITO
Espressione attraverso il passaggio all’azione, di emozioni, desideri e sentimenti. L’individuo elude, così, la fase elaborativa del conflitto sottostante, legato ad un bisogno percepito dal soggetto come ingestibile perché “troppo” per lui o inaccettabile. Il comportamento è incontrollato e impulsivo (35, 213, 215, 219) (CSP/IGA)
Il passare all’azione è intrinsecamente collegato all’agire ed è peculiare del modello della Gestalt. L’organismo sano riconosce, elabora le afferenze del mondo esterno ed è capace di risposte efficaci. F. Perls ricorda che nel paradigma dell’arco diastatico (la Manovra del Riflesso Rotuleo), compare prima lo stimolo e poi la risposta. Nell’evoluzione della complessità di interazione dell’organismo vivente, l’elaborazione dello stimolo si fa sempre più articolata, consapevole, discriminativa. Alla recezione segue la fase dell’ attivazione integrata in tutto l’organismo e la presa di coscienza. La cura analogamente, ne ripercorre le tappe: “dovete diventare non soltanto pienamente consapevoli di quale emozione, interesse o impulso state nascondendo, ma dovete anche esprimerlo con parole, arte o azione” (218, pg. 268). Freud screditava gli agiti nel setting qui non troviamo una critica dell’impulsività, ma rispetto della creatività, consapevolezza attuale della rete dei divieti introiettati e Sincronizzazione dell’atto espressivo nella Terapeutica .”Non siete altro che un insieme di risposte desuete.” – sottolinea Perls (219, pg. 441) in modo lapidario – eppure se non siete nel presente non potete avere una vita creativa” (219, 218) (CSTG)
In Gestalt si fa una netta distinzione tra ‘agire’ ed ‘esprimere’, così come la proibizione di ogni agito e la valorizzazione dell’espressione di sé sono presupposti fondamentali di qualsiasi tipo di psicoterapia. Sigmund Freud distingueva l’agire dal parlare e l’acting out, che rappresenta l’agire contrapposto al pensare (e non, dunque, il pensiero tradotto in azione) è il proibito per eccellenza nella prassi psicoanalitica: Quanto maggiore è la resistenza scriveva Freud, tanto maggiore è la misura in cui il ricordare viene sostituito dal mettere in atto. La psicoterapia non può ospitare gli acting out, qualunque sia il modello teorico di riferimento: quando l’agire è liberamente al servizio della soddisfazione delle pulsioni, si instaura immediatamente la legge del più forte, che priva automaticamente il più debole di qualsiasi possibilità espressiva (IPGE)
Comportamento d’impulso teso a trovare un modo di intervenire sulla realtà senza che il rapporto che si instaura in quel dato istante con essa possa essere osservato nelle sue parti, elaborato nella sua natura e contattato in riferimento alla necessità di una modulazione dei propri stati interni. Dal punto di vista della Gestalt l’agìto è un salto diretto tra la sensazione e la soddisfazione senza che i passaggi intermedi del ciclo del contatto consentano quindi un processo di adeguata modulazione dei propri vissuti e delle proprie emozioni (77, 99) (SiPGI)
ALLEANZA TERAPEUTICA
Ogni relazione terapeutica è caratterizzata da alcuni condizioni di base: la volontarietà dell’operatore di entrare in una relazione con il cliente, uno spazio per l’accoglienza, il setting, il contratto; l’alleanza ovvero la collaborazione intenzionale reciproca per il raggiungimento di uno scopo/obiettivo. L’Alleanza Terapeutica è quindi la componente relazionale del lavoro con il cliente, il contesto relazionale sicuro, necessario a facilitare l’esplorazione e l’elaborazione dell’esperienza emotiva del cliente. Le condizioni relazionali, quali il clima di fiducia e di rispetto, il legame che si crea tra terapeuta e cliente fungono da base collaborativa per il raggiungimento degli obiettivi e lo svolgimento dei compiti necessari. Sin dai primi istanti siamo impegnati in una relazione caratterizzata da reciproca responsabilità, condivisione, collaborazione e cambiamento reciproco. L’Alleanza Operativa è una collaborazione funzionale tra operatore e Cliente, basata sulla reciproca fiducia e definita da un contratto chiaro rispetto agli obiettivi che il Cliente vuole raggiungere e l’impegno dell’operatore ad accompagnarlo in questo processo, in una relazione alla pari. Perls sosteneva che in Gestalt ‘Ci sono tanti stili quanti sono i terapeuti ed i clienti che scoprono se stessi e che si scoprono l’un l’altro ed insieme inventano la loro relazione’. La relazione è caratterizzata anche da un incontro reale e autentico, oltre che transferale, tra due individui unici; le interruzioni dell’alleanza sono viste come interruzioni del contatto e l’intervento si focalizza sul portarle in figura ed elaborarle. Quando c’è una buona alleanza terapeutica e ‘le cose vanno bene’, i clienti sono disposti al cambiamento, sono più consapevoli di sé, dei propri bisogni e sviluppano una maggiore capacità di soddisfarli. La relazione e l’alleanza sono abilitanti e causa primaria del cambiamento, favoriscono, nei clienti, l’autoesplorazione; rappresentano un’esperienza correttiva da interiorizzare, promuovono l’auto-empatia. La relazione è il campo interpersonale che si crea con il proprio cliente, nel caso di rotture o ‘intoppi’ relazionali, è opportuno rispondere in modo supportivo (20, 46, 82, 124, 132, 139, 155, 163, 199, 208, 227, 283, 290) (ASPIC)
Patto costitutivo della relazione terapeutica. Nasce dalla condivisione di obiettivi terapeutici comuni e dalla reciproca fiducia di impegnarsi per il loro raggiungimento (281). Un’alleanza terapeutica veramente tale è una dimensione relazionale per cui i blocchi nevrotici del paziente sono percepiti da quest’ultimo e dal suo terapeuta come un oggetto terzo contro cui schierarsi insieme (77) (SiPGI).
AMORE
Complesso di sentimenti ed emozioni di intensità e durata variabile e differenziati rispetto all’oggetto d’amare. Riguarda il desiderio/passione, l’intimità/romantica, la progettualità del legame per la condivisione della vicinanza e nella libertà. L’amore è l’incontro di due soggettività che cercano nella relazione un incremento di benessere. Nella mitologia: ciascun partner cerca la metà corrispondente per la propria ricomposizione e per ricostruire l’antica unità nella ricerca dell’altro da sé (l’altro comunque non sarà mai la metà perduta).
La rottura del sogno mitico dell’amore romantico (illusione) si dissolve facilmente nella fatica dell’impegno reciproco (delusione) per ricomporsi quando c’è vero amore nella (disillusione ottimale). Mantenere un legame duraturo di desiderio, gratitudine e protezione, contribuisce ad un universo condiviso di valori. Il romanzo biologico include neurotrasmettitori, (dopamina e serotonina) per la creatività e la rassicurazione e ormoni androgeni ed estrogeni (testosterone) (116, 113, 111, 99) (ASPIC).
La Gestalt restituisce alla persona la capacità di sviluppo dei suoi potenziali, tra i quali quello di amare. Per A. Ferrara ‘occorre apprendere l’amore’, matrice dell’esistenza che non troviamo negli elenchi degli strumenti di cura. In realtà, la psicoterapia della Gestalt mette al centro del processo terapeutico la relazione, intesa come uscita da un rapporto basato su interazioni nevrotiche, per dare spazio all’incontro Io-Tu. Quando cogliamo nell’altro un Tu, emerge la pienezza del suo essere, al di là di pregiudizi e apparenze. Emerge un contatto amoroso profondo, da essenza a essenza (206), un filo sottile che diventa compassione, altrimenti detta amore altruistico (IGAT).
AMPLIFICAZIONE
Metodo di lavoro con il quale il terapeuta favorisce il paziente nel collegare un’immagine di un sogno o di una fantasia con immagini universali o ad “enfatizzare” gesti automatici, percezioni e sensazioni al fine di renderli più espliciti e più visibili alla coscienza.
Le immagini personali vengono amplificate dal confronto con immagini simili trovate nei miti e nelle fiabe in questo modo viene raggiunta una “sintesi” tra conscio e inconscio.
L’amplificazione permette al sognatore di abbandonare un’ atteggiamento unicamente personale ed individualistico nei confronti dell’immagine onirica. Tale processo accentua una traduzione metaforica invece che letterale del contenuto onirico ed aiuta il sognatore a fare delle scelte (211, 61, 149, 219, 48, 49) (CSP/IGA)
La reiterazione di una sequenza di racconto, vuoi riferita al soggetto (e detta magari per inciso o con enfasi emotiva) come pure ad un personaggio significativo nella sequenza stessa consente una amplificazione del vissuto emotivo latente e quindi della possibilità di connotarne il significato e la comprensibilità. Alla ripetizione della frase, che spesso evoca una resistenza proporzionata al tentativo di rimozione del contenuto latente, si chiede di esprimere la sensazione che vi si associa sino a raggiungere una sufficiente congruenza tra contenuto e modalità espressiva. Alla abituale attitudine ad eludere, ad evitare ciò che ci può coinvolgere emotivamente, la Gestalt suggerisce il percorso opposto della amplificazione. Detta tecnica può applicarsi a contenuti di coscienza di varia natura: un gesto, un’espressione verbale, un’immagine, una sensazione corporea. Anche qui, anziché rassicurare minimizzando, si preferisce attraversare appieno il vissuto (spesso conflittuale).
Amplificare significa rendere più esplicito ciò che è implicito, proiettando sulla scena esteriore ciò che avviene sulla scena interiore, permettendo così a ciascuno di prendere coscienza del funzionamento nel qui e ora, al confine-contatto tra se stesso e l’ambiente. Il terapeuta osserva attentamente gesti, cambiamenti del ritmo respiratorio, movimenti macro e mini, gesti involontari quali espressioni del contatto e suggerisce di amplificare questi gesti inconsapevoli considerati come lapsus del corpo, rilevatori del processo in corso, inavvertiti dal paziente.
Tale modalità, che richiama il percorso tantrico dell’attraversamento, richiede ovviamente lo sviluppo di una adeguata attitudine virgiliana che consenta di “accompagnare” il nostro esplorare nelle pieghe più temute dei propri “inferi” (86, 215, 219, 387) (CSTG)
ATTACCAMENTO
Complesso di processi emozionali che generano un forte legame affettivo che spingono un soggetto verso un altro. La capacità d’instaurare relazioni interpersonali consistenti dipende dal consolidamento della fissazione relazionale primaria fin dalla nascita con la figura di accudimento e cura. Un buon sistema di attaccamento consente di creare strategie unitarie di significato coerente verso i propri obiettivi. Le disfunzioni dell’attaccamento si manifestano mediante: A) preoccupazioni ansiose, B) evitamento distanziante, C) ansia timorosa, D) ritiri con rabbie, E) insensibilità e aggressività, F) ricerca compulsiva di cure (91) (ASPIC).
L’attaccamento è sofferenza, prodotta secondo A. Sumhedo dal voler trattenere qualcosa che ci piace, dal volerci liberare da ciò che non ci piace o dal volere qualcosa che non abbiamo. Per cui siamo in una continua ricerca di quello che desideriamo, e rifiutiamo, invece, quello che consideriamo negativo. Nella tradizione Buddhista la via per superare il conflitto, che è alla base dell’attaccamento, è la pratica del distacco dalle passioni, una forma di lavoro su di sé che porta a integrare le esperienze e permette di uscire da un dualismo limitante, positivo-negativo, bianco-nero, a favore di una visione unitaria. Con linguaggio differente, anche la Gestalt tende a riunire le polarità: non c’è nulla da eliminare. Ogni aspetto della personalità, per quanto negativo possa apparire, va reintegrato, perché la sua energia è parte dell’insieme (IGAT).
Lo scambio bidirezionale con il caregiver consente al bambino lo sviluppo di un senso di fiducia e sicurezza ed un rafforzamento della relazione tra lui e l’adulto di riferimento, e gli permetterà anche nei momenti più critici di sentire questa appartenenza che accrescerà la sua autostima ed anche la capacità di mettere in atto comportamenti che gli permetteranno di adattarsi in maniera fluida e costruttiva all’ambiente [227]. Il primario scambio relazionale laddove sia nutriente e sia in grado di fornire un’adeguata sicurezza interiore, permette al bambino di sviluppare una futura capacità di autorealizzazione, il senso di Sé e l’autostima, portandolo a modellare i futuri legami affettivi a seconda di ciò che ha sperimentato in questa relazione primaria. L’esperienza di attaccamento e di appartenenza è una parte significativa del ground della persona che costituisce il suo sfondo che lo sostiene e che gli permette di sviluppare una capacità di autonomia funzionale ed esplorativa dell’ambiente che assimilerà nella costruzione della sua identità. Laddove ciò non accada sviluppando un vissuto di attaccamento insicuro, evitante e/o ambivalente, può portare il bambino a mettere in atto strategie difensive chiamate in Gestalt modalità di resistenze al contatto ( Introiezione, proiezione, retroflessione, confluenza, deflessione), che in qualche modo lo proteggono da ciò che non ha avuto modo di sperimentare all’interno della relazione primaria.Il terapeuta della Gestalt Psicosociale proporrà in terapia delle modalità di relazioni diverse da quelle che il paziente ha sperimentato nel suo ambiente di origine, ed il vivere una relazione reale, autentica e significativa farà nascere elementi di fiducia, e di appartenenza riattivando molte delle energie volte all’autorealizzazione, all’autosostegno ed all’autonomia favorendo un futuro processo di esplorazione e di assimilazione di una nuova identità (SIG).
AUTENTICITA’
È quella del bambino. “Autentico”, in questo senso, si lega a “spontaneo”. L’autenticità si perde quando andiamo fuori posto nella vita e siamo costretti, nostro malgrado, a una inversione di ruolo caricandoci senza rispetto di responsabilità non nostre. Al di là dell’origine di tale inversione, è chiaro che non possiamo recuperare la nostra autenticità se prima non facciamo un lavoro interno per buttar via ciò che non è nostro, per ritrovare un posto ricontattando le sensazioni, le emozioni e i bisogni del bambino interiore. Ciò è possibile solo ammorbidendo un controllo troppo spesso irrigidito. Questo controllo pervasivo è la conseguenza di un blocco dell’espressione emotiva, dovuto alla mancata accoglienza di precisi vissuti. Liberare il flusso delle sensazioni, delle emozioni e dei pensieri, affinché il soggetto possa sentire presente a se stesso e al mondo circostante: questo è il processo che conduce verso l’autenticità. Essere alieni da simulazione per proporsi congrui con coerenza e comunicare con genuinità, schiettezza, spontaneità, sincerità, veridicità, originalità, immediatezza e corrispondenza. Essere se-stessi implica necessariamente l’esistenza e la consapevolezza del proprio sé che prende l’iniziativa senza re-agire soltanto a stimolazioni esterne un sé artefice, creativo e responsabile della propria vita, ovvero, essere contemporaneamente soggetti e oggetti di se stessi. Autenticità non è istintività reattiva, non è neanche impulsività; una discarica pulsionale evacuativa. Autenticità è invece essere in con-tatto costante tra mondo interno e ambiente esterno. Non tutto quello che si pensa va detto ma tutto quello che si dice deve essere vero (86, 96, 93, 104, 181, 206, 281) (ASPIC)
A differenza che in un’ottica filosofica, in Psicoterapia della Gestalt il concetto di autenticità non si riferisce alla dicotomia tra vero e falso, ma alla differenza fra stereotipato o congruo alla situazione in corso, la quale con la sua molteplicità di elementi chiama reazioni svariate e contraddittorie: l’autenticità di una risposta risulta qui proporzionale a quanta parte del vissuto della persona trovi posto e venga rappresentata nel suo comportamento, quindi è riferita piuttosto a una congruenza che a una verità in senso assoluto. In accordo con questo punto di vista, scopo principale del lavoro gestaltico è lo sviluppo della creatività necessaria a dare forma a costrutti sufficientemente ampi da contenere complessità nelle risposte alle sollecitazioni esistenziali (IGF)
AUTOREGOLAZIONE
È la tendenza naturale o organismica della persona a regolare il sé. Per poter crescere e svilupparsi gli individui necessitano di mantenere un equilibrio tra la gratificazione del bisogno e l’eliminazione della tensione. Qualora si verifichi uno squilibrio, all’interno della persona o in relazione con il suo ambiente, questo sarà sperimentato come figura dominante rispetto allo sfondo delle altre esperienze. L’autoregolazione permette di rispondere in maniera efficace, differenziando il bisogno e mettendo in atto le azioni appropriate per soddisfarlo, ripristinando così l’equilibrio, liberando nuove energie e permettendo a un nuovo bisogno di salire in figura. Un’adeguata autoregolazione dipende da una buona consapevolezza sensoriale che permette alla persona di utilizzare ciò che per lei è nutriente in termini di stimoli e di rifiutare ciò che non lo è, sapendo a qualche livello ciò che è buono per lei (45, 86, 104, 339) (ASPIC)
“Nell’ambito della psicoterapia della Gestalt, fondamentale processo psicologico mediante il quale l’organismo si adatta all’ambiente in modo spontaneo e creativo, rendendo l’agire coerente col sentire.
L’importanza dell’autoregolazione è ribadita da numerosi autori e in particolare da Perls. Nella psicoterapia della Gestalt, ogni situazione incompiuta e ogni bisogno insoddisfatto non diventano figura in seguito a una decisione predeterminata, ma in modo del tutto spontaneo. Il contatto fra organismo e ambiente, l’esperienza del «campo», ha luogo e si organizza sempre sulla base della «coscienza spontanea» del bisogno predominante. L’intenzionalità dell’organismo, la selezione delle priorità e la progettazione dell’azione congrua sono tutti momenti necessari per portare allo sblocco la situazione incompiuta. Il fissarsi dell’attenzione o un eccesso di intenzionalità sono, invece, all’origine di un’«autoregolazione nevrotica»” (343, p. 119; 338, p. 127). (HCC ITALY) VOCE TRATTA, PER GENTILE CONCESSIONE DEI CURATORI, DA NARDONE G. E SALVINI A. (A CURA DI) DIZIONARIO INTERNAZIONALE DI PSICOTERAPIA, GARZANTI EDITORE, MILANO, 2013
Negli anni cinquanta nelle terapie umanistiche, a partire dagli studi di Goldstein, si approda alla scoperta che è insita nell’uomo una spinta all’autoregolazione (219). Il concetto di autoregolazione si pone in antitesi al pensiero psicoanalitico e alla cultura greca che riconoscono un’istanza regolativa esterna all’uomo. Goodman scrive: «non è necessario programmare deliberatamente, incoraggiare o inibire gli impulsi […]. Se li si lascia stare, si regolano spontaneamente» (219, p. 58) Approfondendo tale definizione, Salonia scrive: «Non è necessario appellarsi ad una legge esterna (legge ‘del padre’ o ‘del Super-Io’), quanto piuttosto favorire nell’uomo l’ascolto di sé, unica via per la scoperta di un’intima valutazione organismica» (309, p. 29). Con la Gestalt Therapy, questo principio viene inserito in una logica relazionale. L’autoregolazione non riguarda, dunque l’organismo, «è il contatto la vera istanza regolativa, dal momento che l’uomo nella relazione è inserito, si realizza e cresce» (309, p. 30). La GT sostituisce alla tecnica delle libere associazioni quella della concentrazione. Dalla verità che viene dall’inconscio decifrato, alla verità che si scopre ascoltando il proprio organismo in contatto (hcc Kairos)
Innata tendenza dell’organismo alla soddisfazione dei bisogni emergenti e al raggiungimento di un adattamento creativo con l’ambiente. In termini fenomenologici, un bisogno soddisfatto va sullo sfondo e lascia spazio all’emergere in figura del nuovo, permettendo così il libero fluire, secondo leggi naturali inconsapevoli e quindi, spontaneamente attive, del processo autoregolativo. Se un bisogno rimane troppo a lungo in primo piano, perché non soddisfatto, si crea un blocco nel processo, una fissazione. Si determina una interruzione del contatto e uno spostamento della intenzionalità in direzioni non congruenti con le effettive necessità, come ad esempio, il continuare a mangiare pur non avendo una fame reale, per riempire un vuoto d’amore, oppure non raggiungere mai l’oggetto del proprio bisogno, creando uno stato di sofferenza.
In Gestalt abbiamo una implicita fede nella saggezza naturale dell’organismo e nella sua capacità di contattare i bisogni e soddisfarli (IGAT)
Quando Perls introduce nuove ottiche nel pensiero freudiano, si basa sulle teorie della Psicologia della Gestalt e su una nuova teoria della personalità, l’autoregolazione organismica, in cui l’asse della personalità non è una struttura compatta come quella che Freud chiamava Io, ma neanche una struttura dinamica come quella che Jung chiamava Sé: L’autoregolazione organismica è un processo naturale, figlio dell’evoluzione della vita sulla terra, che organizza i comportamenti dell’organismo giocando le sue carte sulla base dell’emergenza dei bisogni e in funzione della sua sopravvivenza e della qualità della sua vita, con una competenza che proviene dai milioni di anni di esperienza che la vita ha accumulato attraverso le innumerevoli forme in cui si è manifestata e in cui ha sperimentato problemi e soluzioni (IGF)
La teoria della Gestalt ritiene che le persone siano naturalmente capaci di autoregolazione, sensibili al contesto e guidate dalla motivazione a risolvere i propri problemi. L’autoregolazione organismica e l’esperienza del contatto sono inscindibili dal processo che determina l’organizzazione del campo ovvero lo “strutturarsi dell’organismo e dell’ambiente sulla base della percezione di un bisogno emergente, di una situazione incipiente o incompiuta” (39, p. 73). I bisogni e i desideri dell’organismo hanno un’organizzazione gerarchica tale per cui i più urgenti acquistano la precedenza e richiamano l’attenzione sino a che non ottengono soddisfazione. Una volta che un bisogno sia stato soddisfatto, ne emerge uno nuovo che richiede attenzione e soddisfazione (IPGE)
E’ la modalità con cui l’organismo/persona si attiva nell’incontro e nello scambio con l’ambiente esterno, a partire dalla sua naturale struttura fisiologica (processi corporei: es respirazione, digestione, ecc.) e dalla struttura psicologica acquisita (funzione personalità: schemi percettivi, semantici, comportamentali), al fine di mantenere lo stato di benessere dell’organismo (omeostasi) o accrescerlo. L’autoregolazione sana è organismica ed adeguata alla situazione, cioè rappresentativa della integrazione dell’intero campo corpo/psiche/ambiente, e costituisce lo sfondo consolidato (ma non immutabile) da cui è possibile l’incontro trasformativo con la novità (contatto ed adattamento creativo, autorganizzazione ed organizzazione dell’ambiente). In conseguenza di un apprendimento ripetitivo, minaccioso o traumatico (che ha abbassato il livello di auto-percezione corporea e generato distorsioni nella visione di sé e del mondo), gli schemi psicologici acquisiti possono risultare eccessivamente rigidi e venire applicati in modo generalizzato a situazioni per le quali non sono (più) adeguati, ignorando alcuni bisogni organismici fondamentali e novità ambientali significative. In tali casi l’autoregolazione, presente ma insoddisfacente, è definita nevrotica. Il passaggio dell’autoregolazione nevrotica ad una migliore autoregolazione organismica è possibile allorché l’ambiente (in particolare terapeutico) è tale da rendere ugualmente possibile il contatto (con se stessi, il corpo, l’altro in relazione), nonostante ed oltre gli schemi irrigiditi, che ne risultano inevitabilmente relativizzati e trasformati nella direzione della totalità e dell’integrazione (SGT)
Processo mediante il quale l’organismo sviluppa adattamenti agli stimoli esterni volti a regolare l’impatto che questi hanno su di sé in funzione della conservazione di energie. Essendo un processo naturale, derivato dell’evoluzione della vita sulla terra, è determinato da movimenti inconsci, per un verso, e da automatismi appresi nel corso dello sviluppo dall’altro. Il processo di autoregolazione diventa critico quando l’organismo tenta di attivare una regolazione di stimoli per esso non integrabili e quindi in conflitto tra essi (219) (SiPGI)
BAMBINI (APPROCCIO CON I)
“[…] ciò che ci riguarda nel lavoro con i bambini sono i loro mondi: il mondo interiore (di immaginazione, creatività, pensieri e sentimenti in evoluzione) ed anche il loro mondo esterno (di realtà politica e sociale, condizioni economiche e pratiche culturali e valori)” (280, p. 56). “Un modello di processo del sé ed esperienza del sé basato sul campo intero implica che la dimensione organizzativa più centrale nello sviluppo è […] quella intersoggettiva. Come animali umani il nostro ambiente è prima di tutto sociale” (280, pp. 44-45). “Gli schemi coi quali i bambini affrontano o superano gli ostacoli per provvedere a soddisfare le loro curiosità, i loro interessi e i loro bisogni sono processi cinetici attraverso i quali loro crescono. […] Ciascuno schema che va formandosi è la risposta all’ambiente relazionale, ed esprime un bisogno dominante al momento della sua comparsa. Ciascuno schema promuove il processo di contatto, la qualità e lo stile con cui i neonati (e i bambini e gli adolescenti e gli adulti) sono continuamente in contatto con i loro corpi e con l’ambiente circostante” (47, pp. 44-45). “[… La terapia serve per] costruire il senso di sé del bambino, rafforzarne le funzioni di contatto e rinnovare il contatto con i suoi sensi, il corpo, le emozioni e l’uso dell’intelletto. […] Il bambino si sviluppa attraverso l’esperire. La consapevolezza è così strettamente legata al fare esperienza che non c’è l’una senza l’altra e viceversa” (161, pp. 80-82). “[…] un modello di intervento in psicoterapia infantile [comporta delle specificità rispetto alla terapia con gli adulti, è necessario sia] estremamente flessibile, […] che si fondi sulla possibilità di entrare in contatto profondo con l’esperienza del bambino, di rispondere al suo bisogno (che nella relazione terapeutica si trasforma in risorsa), di mettere in scena attraverso molteplici linguaggi il proprio mondo interno, di far trasparire la propria esperienza e spazializzarla” (27, pp. 32-33) (HCC ITALY)
Secondo il modello gestaltico, anche in età evolutiva l’intervento psicoterapeutico ha lo scopo di accompagnare bambini e adolescenti, pur nei limiti della loro fase di vita, verso scelte fondate su una più ampia consapevolezza e fluidità nelle relazioni tra mondo interno e mondo esterno, nonchè verso assunzioni di responsabilità di eventi, prevedibili e imprevedibili, correlati con queste scelte durante l’intero percorso. Si promuove l’espressione della creatività individuale, piuttosto che l’adeguamento ad un modello predefinito di sviluppo ideale, valorizzando le potenzialità adattive e sostenendo bambini e adolescenti nell’attualizzarle in relazione allo specifico contesto, in modo gradualmente più autonomo in relazione ai propri specifici bisogni. Se è vero che per i bambini è indispensabile la mediazione dell’adulto per realizzare i bisogni/desideri che la saggezza organismica pone in primo piano, la presenza dell’adulto sarà tanto più necessaria nei momenti in cui il ciclo del contatto viene interrotto; in tal senso, il cosiddetto “sintomo” che può manifestarsi costituisce il miglior adattamento possibile alla situazione e, contemporaneamente, rivela una gestalt fissa, indizio del fatto che qualcosa nel complesso sistema organismo/ambiente non fluisce in modo naturale. Nella pratica psicoterapeutica, dunque, di solito risulta utile lavorare in parallelo con il bambino, per aiutarlo a riconoscere bisogni, emozioni e risorse e ricercare modalità efficaci per esprimerli, e con i genitori, per accompagnarli nella capacità di mantenere uno spazio di ascolto e contenimento dei propri figli, pur nell’evolversi delle situazioni. Questo consente di perseguire l’obiettivo comune di costruire uno spazio di espressione e confronto individuale e familiare e creare le condizioni per un sano contatto con la propria saggezza e autoregolazione organismica e per uno sviluppo delle competenze del bambino e dei genitori (253) (IGF)
BISOGNI
I bisogni, per la Gestalt, possono essere organici, psicologici, sociali e spirituali. Essi emergono da uno sfondo indefinito, turbando gli equilibri interni del sistema, per poi giungere in figura sollecitando l’organismo ad interagire con l’ambiente per ristabilire l’omeostasi.
Si tratta della necessità di appagare una mancanza, per rendere soddisfacente la propria vita. Sin dalla nascita l’uomo ha l’esigenza di soddisfare i propri bisogni: da quelli primari e fisiologici per la sopravvivenza, a quelli più spirituali e di natura relazionale. Non sempre i bisogni vengono riconosciuti come tali, oppure non vengono soddisfatti perché sorge un blocco, una interruzione del contatto… che impedisce una vita gratificante: blocco del ciclo gestaltico. Il compito dell’Operatore è agevolare il Cliente a riconoscere e a dare forma ai propri bisogni reali, a superare le interruzioni-resistenze fino al soddisfacimento di questi bisogni: chiusura del ciclo gestaltico per l’attualizzazione del Sé (17, 178, 218) (ASPIC)
Oltre ai bisogni fisiologici l’organismo possiede bisogni psicologici di contatto. Il bisogno dell’organismo cerca un oggetto, una risposta nell’ambiente. L’Organismo, per soddisfare i suoi bisogni, deve occuparsi di un bisogno alla volta, chiudere una gestalt per passare ad altro (altrimenti intervengono confusione, incapacità di concentrarsi, conflitto etc.); il bisogno determinante diventa figura di primo piano e gli altri bisogni vanno sullo sfondo temporaneamente. Non sempre essi vengono chiaramente percepiti o espressi direttamente, “il ciclo di soddisfazione dei bisogni” è spesso interrotto o perturbato. Uno degli obbiettivi del lavoro gestaltico è quello di individuare queste interruzioni, blocchi o distorsioni (219, 218, 61,120) (CSP/IGA)
La differenza tra bisogno e desiderio rimanda ad un processo evolutivo che inizia dal bisogno e approda al desiderio. Il bisogno e la sua soddisfazione richiamano la relazione asimmetrica nella quale un soggetto si prende cura di un altro-in-crescita. La trasformazione da bisogno in desiderio avviene quando il bisogno, soddisfatto in modo adeguato, perde le caratteristiche dell’urgenza, dell’immediatezza e dell’autoreferenzialità (322). Se le figure genitoriali rispondono ai bisogni del bambino, questi progressivamente entra in contatto con se stesso, sviluppa la pienezza della propria integrità e apprende a transitare alla reciprocità del desiderio che è l’inizio della relazione paritaria (309). Sono state indicate le sequenze e i tempi in cui il corpo soddisfatto impara progressivamente modalità relazionali sempre più complesse: dipendere/ricevere, opporsi/esprimersi, darsi piacere/essere autonomo, interdipendere/consegnarsi (303, 299). Se in questo cammino un bisogno non viene soddisfatto, non si trasforma in desiderio e si rimane fissati ad una modalità relazionale io-esso (l’altro come protesi del proprio bisogno). Rimane una gestalt aperta che in modo ossessivo ritornerà a interferire creando confusione in ogni interazione tra il soggetto e l’ambiente. Fin quando si ha bisogno del mondo/dell’altro non è possibile aprirsi alla novità dell’altro. Il bisogno, allora, può essere o fisiologica dipendenza che invoca l’altro-che-si-prende-cura (contesto evolutivo o terapeutico) o incapacità di passare al desiderio e quindi fissazione regressiva in dipendenza patologica nella quale l’altro, come direbbe Buber, diventa un ‘esso’ (27). Il bisogno è unilaterale, ha il ritmo del tutto-e-subito, è autoreferenziale; il desiderio, invece, fiorisce nella reciprocità, ha tempi condivisi e ritmati con l’altro, è proteso alla pienezza (314, 318) (hcc Kairos)
Nell’essere umano si possono distinguere i bisogni fisiologici (il bisogno di mangiare, di bere…) dai bisogni psicologici (219 pg 41-42) (il bisogno di essere amati, di essere riconosciuti, di essere apprezzati…). L’aspetto rilevante dei bisogni psicologici, rispetto a quelli fisiologici, è che essi sembrano derivare dall’insieme di più istanze psicologiche intrecciate tra loro. Certamente una di queste istanze è rappresentata dai miti (familiari, sociali) che sembrano concorrere nella determinazione del tipo di bisogno. Per esempio, in ambito psicoterapeutico, quando ci troviamo in relazione con un cliente cresciuto in una famiglia in cui prevaleva il mito dell’eroe che non deve chiedere mai, molto probabilmente tale mito emergerà nel modo in cui il cliente si muove nel mondo per soddisfare il suo bisogno di auto-affermazione, oppure nel soddisfare il suo bisogno di essere amato.
Altro aspetto importante che concorre a determinare il bisogno psicologico, è certamente il carattere. Parlando in termini di enneatipi, alcuni caratteri presentano in primo piano dei bisogni di un certo tipo che non si riscontrano in altri enneatipi. Appare evidente che i bisogni psicologici, calati nella realtà psicoterapeutica, assumono dei valori personali tali da non poter essere generalizzati a tutti gli esseri umani, in quanto uno stesso bisogno viene vissuto con modalità diverse da persona a persona e soprattutto viene soddisfatto con modalità assolutamente specifica. Si potrebbe affermare che il fatto che una persona abbia determinati bisogni fa sì che appartenga alla categoria degli esseri umani, ma il modo in cui li soddisfa è assolutamente personale (IGRO)
Nella pratica lavoriamo nel fare emergere il bisogno e nel renderlo consapevole al soggetto. Il bisogno ha già in sé l’intenzionalità che porta a soddisfare il bisogno stesso e a trovare un senso nel confine di contatto con l’ambiente. Il bisogno nasce all’interno della persona nel suo ambiente, l’intenzionalità è la spinta che porta alla soddisfazione del bisogno e alla co-creazione di una risposta con l’ambiente. Per esempio la pianta ha bisogno di luce per poter crescere. Se messa lontana da una fonte luminosa cercherà la fonte: ha in sé la direzionalità verso la luce. Bisogno e intenzionalità non si possono definire separatamente (SGT)
CAMPO
Il Campo Relazionale è il luogo nel quale si costruisce la relazione Operatore-Cliente, caratterizzato da regole contrattuali (orario, costi, durata, ecc…) e regole proprie dell’esperienza relazionale. Funge da contenitore ed è organizzato in modo neutro per agevolare un’efficace relazione d’aiuto, sia per l’Operatore che per il Cliente (124, 283) (ASPIC)
Nessun individuo è autosufficiente, egli esiste solo in relazione al campo, il suo comportamento è una funzione del campo totale che comprende sia lui che l’ambiente (161, 61,38) (CSP/IGA)
“In quanto gestalt intera che comprende sia la figura che lo sfondo, il campo include le molte possibilità dell’evento fenomenologico” (38, p. 177).
“La prospettiva di campo nella psicoterapia della Gestalt ci invita a non pensare in modo dicotomico. Innanzitutto occorre dire che ci riferiamo ad un concetto di campo fenomenologico, dunque esperienziale, che però non è una realtà meramente soggettiva. La prospettiva di campo ci consente di pensare alla percezione come ad un “prodotto relazionale”, strettamente connesso alla pienezza della concentrazione degli individui coinvolti sul confine di contatto” (342, p. 73). “Il campo in psicoterapia della Gestalt è un processo, non un sistema” (130). “[…] è anche il modo del nostro approccio di risolvere la diatriba tra soggettivo e oggettivo, in quanto la soggettività piena coincide con la presenza all’oggettività. Più l’individuo è presente nel ‘tra’, più partecipa del campo, più la sua presenza contribuisce a creare le condizioni del campo” (342, p. 74). “In psicoterapia della Gestalt, è a K. Lewin che si deve la formulazione della teoria del campo. In ambito clinico, la teoria del campo è stata ripresa in particolare dalla psicoterapia della Gestalt, per la quale l’organizzazione del campo è fortemente connessa non solo al bisogno emergente o al compito interrotto, ma più in generale all’esperienza che scaturisce dalla relazione organismo-ambiente. Mentre tuttavia Lewin concepisce il campo come «rappresentazione» mentale interna, la psicoterapia della Gestalt lo intende soprattutto come «esperienza» del confine di contatto tra organismo e ambiente. Da queste due diverse concezioni del campo emergono due differenti modelli epistemologici: l’uno fondato sul principio di «rappresentabilità» del reale, l’altro centrato sul «confine» come luogo della mente, interfaccia tra il mondo dei significati e il mondo fisico” (350, pp. 613-614; 338, p.134). (HCC ITALY)
VOCE (Teoria del campo) TRATTA, PER GENTILE CONCESSIONE DEI CURATORI, DA: GIORGIO NARDONE E ALESSANDRO SALVINI (A CURA DI) (2013), DIZIONARIO INTERNAZIONALE DI PSICOTERAPIA, MILANO: GARZANTI EDITORE
Secondo Lewin il comportamento di un individuo è regolato da fattori interdipendenti, costituiti dalla sua personalità e dall’ambiente che lo circonda (campo organismo-ambiente). Per comprendere il comportamento, la persona e il suo ambiente devono essere considerati un campo unico dove interagiscono tutti gli elementi presenti, vicini e lontani: nella psicoterapia della Gestalt infatti non si considera il paziente come focus dell’attenzione, ma la relazione fra il paziente e i suoi interlocutori interni con cui lui interagisce nella seduta attraverso la messa in scena della sedia vuota (IGF)
Ogni oggetto può essere compreso solo in relazione al contesto nel quale è inserito. La traslazione operata da Lewin dal campo delle forze fisiche di attrazione/repulsione ai comportamenti osservabili nei piccoli gruppi, fu ripresa da Perls e applicata a quanto avviene all’interno del singolo individuo. Nella Teoria del Campo il mondo è considerato come una rete sistematica di relazioni, continua nel tempo, e non come un insieme di particelle discrete o dicotomiche. Ne consegue che nulla è statico e tutto è in costante trasformazione. La realtà si configura attraverso la relazione tra chi osserva e ciò che è osservato, definendosi non solo come un mero ‘fatto’ oggettivo ma anche come funzione di una prospettiva di osservazione. Per questa via è possibile ammettere l’esistenza e la legittimità di molteplici realtà. Più precisamente, secondo l’intuizione di Lewin, qualsiasi evento psichico è l’espressione di un dinamismo che intercorre tra l’organismo e l’ambiente circostante e che si sviluppa all’interno del campo sopra descritto. Nei termini della psicologia della Gestalt, il campo è lo sfondo di una mappa rappresentazionale all’interno della quale emergono, di volta in volta, figure differenti ma salienti rispetto agli scopi dell’organismo: sono i bisogni ad organizzare il campo. Ciò implica che uno stesso elemento può essere percepito come più o meno saliente, più o meno significativo, in relazione ai bisogni dell’individuo in quel particolare momento (IPGE)
Il campo è la configurazione significativa di elementi percettivi, emozionali e fisici così come sono esperiti da un individuo che ne fa esperienza in un momento dato, e che ne influenza gli atteggiamenti e le azioni all’interno del campo stesso. Si tratta dunque non tanto dei concreti elementi fisici di una situazione oggettiva, ma della modalità con cui tali elementi, concreti e psicologici, sono soggettivamente vissuti e rappresentati. Citando Lewin, il comportamento individuale è una funzione del campo, ossia della personalità e dell’ambiente di vita, soggettivamente percepito. Il campo soggettivo si differenzia anzitutto in io- organismo-soggetto rappresentante e tu- ambiente-altro rappresentato, fra loro in contatto, separati e connessi dal relativo confine (di contatto). L’ulteriore organizzazione del campo è funzione del bisogno e più in generale dell’aspetto fisiologico-psicologico predominante dell’organismo nell’ambiente di vita (Kurt Lewin, Paul Goodman), e si manifesta come l’emergere in primo piano di una figura, corrispondente al bisogno- intenzione predominante, emergente da uno sfondo che contribuisce e dà forza al suo significato. Il continuo evolvere dell’organizzazione del campo in una sequenza ininterrotta di figure e sfondi è il modo con cui l’organismo contatta fenomenologicamente il campo medesimo, se stesso e l’ambiente. È l’essenza stessa del processo di contatto e di adattamento creativo (SGT)
CANE DI SOTTO E CANE DI SOPRA
Fritz Perls elaborò l’idea che il conflitto interiore si possa considerare caratterizzato da due parti apparentemente di diverso potere, ma in realtà solo di diversa posizione: le rappresentò come un cane in posizione superiore che abbaia verso un cane in posizione inferiore, il quale sembra perdere lo scontro, ma in realtà immobilizza la situazione con una resistenza passiva. Con questa metafora Perls sosteneva l’idea che non si tratti mai di risolvere il conflitto con la prevalenza della parte più ‘giusta’, in quanto l’altra ha comunque mezzi per mettere i bastoni fra le ruote alla prima, e che ci si debba comunque arrendere a una trattativa fra le due parti le quali devono necessariamente trovare se non un superamento dialettico almeno un compromesso, pena la perdita per la persona di energie e capacità (in quest’ottica il doverismo appare come un tentativo, fallito in partenza, di risolvere il conflitto interno con la semplice soppressione di istanze scomode). La metafora si è persa nella Psicoterapia della Gestalt contemporanea, che utilizza in genere il più semplice concetto di polarità, coniato da Erving e Miriam Polster per indicare elementi intrapsichici in opposizione, senza necessariamente identificarli con specificità: questo permette un movimento molto più agile nel dialogo con se stessi e ha portato la tecnica dell’intervento a livelli così sofisticati da farlo apparire naturale, senza necessità di escamotages artificiosi (IGF)
Metafora con la quale Perls indicava gli attori coinvolti nel conflitto. Il cane di sopra, per stare sopra l’altro cane, sale le scale che lo portano al pulpito dal quale proclama la sua visione apollinea del conflitto. Esso è in alto perché si sente in diritto di reclamare, razionalmente, ciò che si aspetta dall’altro, il cane di sotto.
Quest’ultimo, disubbidiente, ringhiante, egocentrico, non curante del prossimo, si fa portavoce dello spirito dionisiaco dell’essere umano. Esso rimane in contatto con la saggezza organismica e come tale si fa portavoce dell’energia vitale. La metafora non vuole, secondo noi, evidenziare una differenza di potere tra il top dog e l’under dog (215, pg 25-26), ma semplicemente ci permette di ricordarci che, durante l’accadimento psicoterapeutico, il mondo dionisiaco e il mondo apollineo si incontrano e si scontrano continuamente, portando spesso il cliente a situazioni di impasse nella propria vita (IGRO)
Metafora usata da Perls per descrivere la dinamica esistente tra due spinte energetiche (ad esempio desideri o pulsioni) in conflitto tra loro e il modo in cui (apparentemente) l’individuo si adopera per risolvere tale conflitto. Il cane di sopra (la spinta prevalente) abbaia e sottomette l’altro. Quest’ultimo (il cane di sotto) si sottomette al primo mostrandosi annientato, ma in realtà è una resa passiva mediante la quale si garantisce la sopravvivenza. Ciò ad esempio accade con il doverismo, meccanismo attraverso cui l’individuo subordina un proprio bisogno (il cane di sotto) ad una necessità socialmente condivisa e approvata (il cane di sopra) (219) (SiPGI)
CARATTERE
Nella Gestalt contemporanea, il termine “carattere”, fa riferimento alla cristallizzazione della storia esperienziale del soggetto. Il termine richiama la concettualizzazione reichiana di cui sono note le influenze sulla terapia della Gestalt, ma in questo caso il carattere non è una struttura muscolare che funziona da scudo e protezione dal mondo come la intendeva Reich, ma piuttosto un adattamento creativo che il soggetto stabilisce nella relazione con il suo ambiente. Il carattere rappresenta la struttura, ha funzione strutturante, sia riguardo al confine percepito fra sé e l’altro, sia rispetto alle relazioni che tale confine attraversano.
Le interruzioni di contatto sono i modi specifici con cui il carattere viene costruito, fissato e mantenuto nella situazione attuale evitando di contattare le disturbanti novità dell’esperienza; viceversa ogni interruzione di contatto assume significato allorché contestualizzata all’interno di uno specifico carattere, che ne rappresenta lo sfondo relazionale e prospettico. Esiste una chiara corrispondenza tra struttura del carattere e atteggiamento corporeo in quanto a ciascun carattere corrisponde un atteggiamento del corpo di natura difensiva per cui il corpo diventa la chiave per accedere al carattere dell’individuo (104, 115, 118, 222) (ASPIC)
Secondo la tradizione dell’Enneagramma (205), ogni essere umano durante i primi anni di vita sviluppa un carattere, una personalità, che si organizza intorno a espressioni emozionali esagerate, passioni, e intorno a rigidi nuclei cognitivi, fissazioni.
Ogni individuo, fin dagli inizi della sua esistenza, affronta le sue esperienze di vita assumendo adattamenti automatici e ripetitivi che formano una maschera, una vera e propria identità che poi adotta nelle interazioni con il resto del mondo. La tradizione dell’Enneagramma arriva nella nostra cultura agli inizi del Novecento, grazie all’opera di G. I. Gurdjieff, il quale propone un’idea di uomo tricerebrato, dotato di tre cervelli corrispondenti a tre centri: motorio, emotivo e cognitivo. Successivamente C. Naranjo, ispirandosi a O. Ichazo, identifica tre tipi di istinto: il conservativo, il sociale e il sessuale, tre forme attraverso le quali si manifestano i nove caratteri di base. Ciascun carattere è il miglior adattamento possibile che la persona trova nell’ambiente in cui viene al mondo (IGAT)
Mentre Jung distingueva due tipi fondamentali di carattere, estroversi e introversi, ulteriormente declinati poi da quattro categorie, tre tipologie di carattere, sentimento, pensiero e azione, sono state descritte sia da Freud che da Karen Horney che da Claudio Naranjo: si possono considerare caratterizzate da tre modalità difensive di base (amor proprio, diffidenza, disillusione) che sposate dalla persona in modo acritico, diventano passioni. Le passioni sono inevitabilmente destinate a non essere al servizio della vita, ma a prendere la vita sotto il loro controllo e quello che per la persona era semplicemente coinvolgente diventa allora una coazione comportamentale, una tendenza fortissima a trovare significativo e soddisfacente reagire alle situazioni sempre nello stesso modo (IGF)
Possiamo immaginare che prima di nascere il bambino viva nell’utero una condizione ideale in cui tutti i suoi bisogni vengono soddisfatti e le frustrazioni sono ridotte al minimo. Il cucciolo umano, diversamente dalla maggior parte degli animali, per la sua sopravvivenza dipende totalmente dalle cure materne per un periodo piuttosto lungo della sua vita. Ma una madre non è mai perfetta, e una certa quota di frustrazioni è necessaria per permettere al bambino di strutturare il suo Io, ossia quell’insieme di funzioni psichiche indispensabili all’elaborazione degli eventi che lo riguardano (239). Le necessarie ”normali” frustrazioni fanno sì che si strutturi quello che chiamiamo carattere, una complessa configurazione cui si possono ricondurre i comportamenti abituali, costanti e automatici dell’individuo. Tale configurazione è caratterizzata dall’interazione di un aspetto motivazionale, la passione, con una tendenza cognitiva, la fissazione, che ne è la razionalizzazione, e si traduce nella lettura cognitiva di se stessi e del mondo (205). Passione e fissazione, insieme, portano con sé una importante dose di idealizzazione e si alimentano a vicenda, comportando la convinzione implicita che quello sia il modo giusto di vivere, di essere e muoversi nel mondo, e costituendo una vera e propria lente deformante sul mondo che seleziona le informazioni e le manipola in modo da non mettere in discussione tale convinzione e ad autoalimentarla (IGP)
CONGENITORIALITA’
La co-genitorialità secondo l’approccio gestaltico alla genitorialità è centrata sull’estetica del contatto tra genitori e figli e sulla fenomenologia dell’“essere-con” (344). Quest’ultima è infatti per la psicoterapia della Gestalt la cifra ermeneutica della genitorialità, sia quando pensiamo alla coppia genitoriale che quando pensiamo al rapporto genitori/figli. Per comprendere e sostenere la genitorialità partiamo dal “processo di contatto”, ossia dalla modalità fenomenologica, corporea e relazionale con cui ciascuno attualizza l’essere-con. Si è sempre genitori “insieme a” qualcuno, al limite solo dal punto di vista biologico. Inoltre, si è genitori “di” qualcuno: la capacità del genitore di adattarsi alle caratteristiche specifiche di quel figlio è cruciale. La conoscenza relazionale estetica permette di empatizzare con l’intenzionalità di contatto dell’altro: comprendere dal profondo la tensione amorevole che sgorga dall’attaccamento del figlio e che eventualmente lo fa entrare in ansia fino a farlo esprimere in modo arrabbiato (cfr. 341).
Il modello gestaltico di genitorialità elaborato da Margherita Spagnuolo Lobb è basato sulla prospettiva processuale (le competenze genitoriali sono viste in base alle funzioni di sincronizzazione affettiva, accudimento e protezione che esercitano e che generano, non in base ai contenuti che veicolano), fenomenologica (le esperienze dei genitori e dei figli sono considerate nel loro essere animate da intenzionalità di contatto condivise, e nel tempo che scandisce le fasi del loro essere genitori) ed estetica (la “bellezza” dei figli è considerata il criterio che orienta l’intervento genitoriale). Il modello gestaltico del campo genitoriale è costituito da sei competenze relazionali (o domini) che si attualizzano in altrettante fasi evolutive della genitorialità, ognuna delle quali è animata dalle intenzionalità condivise nel campo relazionale ed è caratterizzata da determinati vissuti emergenti e da una sfida evolutiva dell’essere genitori. Per ogni fase si distingue inoltre la funzione sociale a cui essa fa accedere, essendo la genitorialità un’interfaccia tra intimo e sociale (353) (HCC ITALY)
James Mc Hale definisce la cogenitorialità (coparenting) come «un’impresa familiare, co-gestita da due (o più) adulti che insieme assumono la cura e l’educazione dei bambini per i quali condividono la responsabilità». Secondo tale definizione, il coparenting rappresenta la capacità delle figure genitoriali di creare un’alleanza genitoriale e di coordinarsi nell’esercizio della propria funzione cogenitoriale. Secondo la Gestalt Therapy (GT) lo sfondo di riferimento della cogenitorialità è la triade primaria, formata dalla coppia dei partner cogenitoriali e dal sottosistema filiale, nel senso che non è il padre che regola la diade madre-bambino, ma è la diade genitoriale che regola ogni singola diade genitore-figlio (51, 301, 309). Essa si configura pertanto come una matrice interattiva che non si sovrappone all’esperienza diadica e può attivarsi come terreno privilegiato per l’individuazione, anche precoce, di procedure di accoglienza, valutazione e sostegno per le coppie genitoriali. Tale matrice può altresì estendersi allo studio delle attuali forme familiari, considerate come tendenze e trasformazioni del nuovo vivere insieme. I coparents possono infatti essere membri genitoriali di una famiglia estesa, di una famiglia divisa o caregivers professionali di comunità alloggio (foster parents). La cogenitorialità fa in tal senso riferimento alla coordinazione triangolare. Da uno sfondo triadico, essa rappresenta una variabile significativa della GT rispetto allo studio dei modelli evolutivi e al lavoro clinico con le famiglie, valorizzando la competenza al contattarsi come capacità della coppia di co-regolare le interazioni attraverso i propri vissuti emotivi. Nell’ambito di tale prospettiva relazionale triangolare, insita nella GT, è pertanto la relazione tra i partner cogenitoriali a svolgere una funzione normativa del rapporto madre-figlio e padre-figlio: l’essere orientati alla presenza dell’altro, in quanto partner genitoriale, è la conditio sine qua non di un triangolo affettivo funzionale e creativo (309, 323) (hcc Kairos)
I genitori sono una risorsa per i figli; pertanto, vanno sostenuti nello svolgimento delle loro funzioni, a livello individuale e condiviso. La cogenitorialità consiste nella possibilità, per entrambi i genitori, di svolgere le funzioni genitoriali, nel rispetto delle rispettive specificità e differenze, mantenendo relazioni reciprocamente valorizzanti che possano sostenere l’evoluzione di ciascuno e dell’intero sistema familiare. Il bambino ha bisogno di stare in contatto con entrambe le figure genitoriali in una relazione di fiducia e, avendo un profondo legame con loro, non può pensarle come reciprocamente escludentesi.
Le modalità per rispondere alle esigenze del figlio, in relazione agli aspetti emotivi, relazionali ed organizzativi, si evolvono nel tempo e richiedono un continuo adattamento reciproco da parte delle figure adulte di riferimento.
Nelle situazioni di elevata conflittualità, invece, i genitori si pongono talvolta come due polarità opposte e il figlio viene posto in una situazione di conflitto “irrisolvibile”: gli viene chiesto di “schierarsi in modo permanente” con uno dei due adulti, mentre per il bambino “scegliere” significa poter soddisfare il proprio bisogno di mantenere una presenza stabile di e restare in contatto con entrambi in termini emotivi, pur con il mutare delle situazioni.
Il continuo divenire dell’esistenza richiede un percorso di adattamento creativo: si tratta di sviluppare un “terreno nuovo e comune”, in cui le persone (genitori e figli) coinvolte possano evolvere e mantenere tra loro un legame in modo coerente con il modello genitoriale interiorizzato (256) (IGF)
CONCENTRAZIONE
“Consiste nel focalizzare l’attenzione su qualche aspetto della propria esperienza: la respirazione, una sensazione, un’emozione, un’immagine, qualcosa di esterno, come un suono, ecc.” (174, p. 120). “Perls sottolinea la necessità di concentrare l’attenzione […] sulla tensione, o blocco o inibizione, muscolare. Definisce questa messa a fuoco dell’attenzione ‘terapia di concentrazione’: termine che adotta, dandogli molto credito, da Reich. […] In luogo dell’‘associazione libera’, da lui definita un approccio dispersivo, fortuito, di ‘fuga delle idee’, egli invita il paziente ad assumere uno stato simile alla meditazione: uno stato di attenzione concentrata, di più elevata consapevolezza dell’assenza o dell’inibizione, o forse dell’eccesso, della funzione in questione, intendendo generalmente l’aggressività” (379, p. 58).
“L’evitamento è la caratteristica principale della nevrosi ed è ovvio che la concentrazione è il suo opposto. Ma, si tratta naturalmente di quella concentrazione sull’oggetto che, in accordo con la struttura della situazione, richiede di diventare figura. In parole semplici: dobbiamo affrontare i fatti. La psicoterapia significa: assistere il paziente nell’affrontare quei fatti che nasconde a se stesso. Con la concentrazione sul sintomo rimaniamo nel campo (benché alla periferia) della Gestalt repressa. Perseverando in tale concentrazione, lavoriamo verso il centro del campo o ‘complesso’; durante questo processo incontriamo e riorganizziamo gli evitamenti specifici, per esempio le resistenze” (218, p. 201). “La concentrazione perfetta è un armonioso processo di cooperazione conscia e inconscia. […] l’efficacia della concentrazione come metodica terapeutica deriva dalla funzione creativa della consapevolezza, che si attiva con la concentrazione stessa” (174, p.121). (HCC ITALY)
La tecnica della concentrazione venne inventata da Perls come alternativa a quella delle ‘libere associazioni’. Freud aveva avuto l’intuizione di applicare quest’ultima alla cura analitica (da tempo usata nell’ermeneutica ebraica per l’interpretazione della Torah (185): anche le più sconnesse parole del paziente, se ascoltate con una adeguata chiave di lettura, rivelavano così un senso. L’incomprensibile, l‘irrazionale’ non era più tale. Secondo Perls, però «la meta della psicoterapia non è quella di rendere il terapeuta consapevole di qualcosa che riguarda il paziente, bensì quella di rendere il paziente consapevole di se stesso» (219, p. 137). Non si tratta di spiegare al paziente ciò che lui non sa o di fornirgli ‘verità’ da introiettare: sarebbe poco saggio – dice Perls – mantenere il paziente in una condizione di subalternità o di ignoranza riguardo a se stesso poiché «è il possesso degli strumenti che supera il senso di sentirsi escluso» (219, p. 139) e smuove così la crescita. Nella concentrazione, l’Organismo (O.) presta attenzione e diventa consapevole della vita che scorre – in modo sotterraneo – nel proprio corpo: sensazioni, emozioni, tensioni, blocchi, intenzionalità. La concentrazione permette al paziente di accorgersi di come il suo O. stesso procura il sintomo. Non è quindi solo conoscenza di sé, ma conoscenza dei processi con cui il Sé entra in contatto con l’Ambiente (A.) e dei processi corporei che determinano l’interruzione della crescita (291). La validità di questa tecnica è dimostrata dal fatto che è stata ripresa prima da Gendlin (83) e attualmente dalla Mindfulness (224). La specificità della concentrazione gestaltica sta nel ridare al paziente il potere di essere presente a se stesso, diventare consapevole di ciò che sente (funzione-Es) e di ciò che ha assimilato (funzione-Personalità) per poter realizzare un adattamento creativo (funzione-Io) con l’A. (hcc Kairos)
CONFLITTO
“[…] fondamentalmente, nessun conflitto dovrebbe essere sciolto dalla psicoterapia. I conflitti ‘interni’ in particolare hanno una forte carica di energia e sono pieni di interesse e costituiscono quindi i mezzi della crescita; il compito della psicoterapia è quello di renderli consapevoli in modo tale che essi possono alimentarsi con il nuovo materiale ambientale e giungere ad una crisi” (219, pp. 164-165). “Il conflitto tra le persone, la risultante sociale dell’aggressività, è visto in psicoterapia della Gestalt come parte di un normale evolversi delle relazioni. Esso reca la possibilità di attraversare le differenze senza che nessuno emerga a scapito di altri, arrivando a una nuova e inimmaginabile realtà co-creata, in cui ognuno può emergere con la propria individualità e la soddisfazione di aver ‘conquistato’ un senso di esser-ci unico nella comunità sociale […]. All’origine del conflitto, insomma, si pone il desiderio di contribuire positivamente alla situazione. Attraversare il conflitto significa avere fiducia nell’autoregolazione delle relazioni” (339, p. 132). “Se il conflitto viene evitato, non si può né crescere/apprendere né far crescere la società” (339, p. 252). “Per ritornare all’esperienza di un sano conflitto, occorre rendere i giovani capaci di sperimentare il proprio aggredire con la forza che viene dal sentire (fisiologico e psicologico) il proprio essere radicati alla terra, e da un senso di sé armonico e spontaneo. […] L’ascolto, strategia di regola proposta per la risoluzione dei conflitti, deve essere supportato oggi dall’ascolto del proprio corpo, da un tipo di sensazione – come il senso di radicamento, l’esperienza di esserci in modo confinato e forte – che, se qualche decennio fa era scontato, oggi ha lasciato il posto alla esperienza di ‘liquidità’. Diventa ancora più importante oggi sostenere tutto ciò che consente di restare concentrati su se stessi all’interno di contatti significativi” (341, p. 37) (HCC ITALY)
Il conflitto è una dinamica oppositiva che sostiene l’esperienza di apertura del Sé. Il vero conflitto implica lottare per un oggetto capace di produrre cambiamento, rischiare completamente se stessi in un’iniziativa in grado di mutare l’esistente cristallizzato (39). I conflitti autentici sono quelli ricchi di eccitazione e per questo capaci di pervenire ad una soluzione creativa (219). Atteggiamento di fondo è il ‘disinteresse creativo’, antitetico al bisogno nevrotico di vittoria e di sicurezza. «La nevrosi […] è la pacificazione prematura del conflitto; è una tregua o un’insensibilità volti ad evitare un ulteriore conflitto; e in un secondo momento si manifesta come un bisogno di ottenere la vittoria in scontri meschini, come se volesse distruggere l’umiliazione fondamentale. La nevrosi, brevemente, è il trionfo sul sé» (219, p.169 ). «L’interruzione prematura del conflitto, a causa della disperazione, della paura di perdere, o dell’evitare la sofferenza, inibisce la creatività del sé, il suo potere di assimilare il conflitto e di formare un complesso nuovo» (219, pp.175-176). Se focalizziamo la dimensione relazionale, attraversare il conflitto significa avere fiducia nell’autoregolazione della relazione. «La trama del vivere insieme risulta (…) scandita da due spinte radicali, intimamente connesse ma diametralmente opposte: la spinta ad ‘appartenere’ da un lato, e ad ‘essere se stessi’ dall’altro» (302, p. 101). Solo chi si separa da appartenenze simbiotiche può essere se stesso; ma solo chi perde la propria soggettività nella relazione rinasce ad orizzonti inesplorati. In tale cornice, anche l’aggressività deve considerarsi come espressione della forza propria di ogni Organismo, teso ad esprimere l’unicità e la creatività che gli appartengono: «vissuta dentro il legame e dentro il riconoscimento dell’altrui diversità, l’aggressività e dunque il conflitto diventano energie, forse dolorose, ma certamente feconde» (302, p.105) (hcc Kairos)
Si dà un conflitto quando due forze orientate in direzioni diverse abitano uno stesso contenitore. Due desideri contrastanti della stessa persona per esempio costituiscono un conflitto interno, due istanze diverse di due persone diverse connesse da un legame, stabile o contingente che sia, costituiscono un conflitto esterno. In questo senso conflitto è sinonimo di vita, la quale è per definizione un contenitore di forze che tirano in ogni direzione. Due forze che si incontrano possono dare luogo e tre eventualità: il sintomo, una situazione dove non c’è spazio né per una parte né per l’altra; il compromesso, dove una rinuncia parziale permette alle due istanze di ottenere una parziale opportunità; la sintesi, un luogo che ha posto per ambedue le parti in gioco. Il lavoro psicoterapeutico consiste nel muoversi dalla posizione del sintomo almeno verso quella del compromesso, con l’intenzione di raggiungere prima o poi la sintesi (IGF)
Il termine conflitto (218, pg 69), da un punto di vista psicoterapeutico, sta ad indicare l’esistenza, quanto meno, di due punti di vista opposti nel mondo intrapsichico della persona.
Parliamo di almeno due punti di vista, perché, a ben indagare nell’ottica psicoterapeutica, un conflitto può essere sorretto da più punti di vista diametralmente opposti. Ovvero, si potrebbe dire che il conflitto non è altro che l’agorà nella quale si sono dati appuntamento i diversi punti di vista. La cultura psicologica odierna ha passato il concetto che il conflitto deve essere risolto perché portatore di un senso di sofferenza per la persona, dimenticandosi troppo affrettatamente che su un piano psicoterapeutico il conflitto rappresenta la presa di contatto con i nostri vari aspetti del sé. Ovvero si potrebbe dire, paradossalmente, che la persona in conflitto è viva nel senso che è consapevole delle diverse tensioni psichiche che si presentano al confine del contatto tra l’organismo e l’ambiente (219, pg 164-166). Il contrario del conflitto sembra essere rappresentato da una quiescenza psichica derivante dall’evitare, mediante l’impiego dei diversi meccanismi di difesa, il contatto con l’ambiente. I conflitti li possiamo trovare a livello intrapsichico come a livello relazionale.
Su un piano intrapsichico, lavorare per la risoluzione del conflitto, significa, spesso, lavorare per l’integrazione e l’accettazione delle diverse istanze psicologiche che abitano in noi. Su un piano relazionale significa, prima di tutto, riconoscere che il conflitto si è strutturato con l’immagine interiorizzata che abbiamo dell’altro e non con l’altro in quanto tale. Questo mette in gioco la distinzione proposta da Brentano (25) tra Effetto primario ed Effetto secondario della realtà sulla psiche personale (IGRO)
CONFLUENZA
Nell’approccio teorico della psicoterapia della Gestalt, rappresenta la funzione del sé caratterizzata da scarsa differenziazione tra l’individuo e l’ambiente (definibile anche come iper-permeabilità di membrana-sé per Zerbetto). Tale condizione comporta il passaggio indiscriminato di elementi tra ambiente (mondo) interno ed esterno. Essa è fisiologica e positiva nelle prime fasi di vita, nell’intimità delle relazioni amorose, nella condivisione empatica e nelle esperienze mistiche; è disfunzionale e negativa quando l’individuo si trova in un ambiente per lui nocivo dal quale non è in grado di differenziarsi e difendersi. Come direbbe Perls, “Le parti e l’intero sono indistinguibili”, l’individuo “ha perso completamente ogni senso del confine” (214, 387) (CSTG)
“Senza questo senso di confine – questo senso di qualcos’altro da notare, da avvicinare, manipolare, godere – non vi può essere nessuna emergenza e nessuno sviluppo del processo figura-sfondo, donde nessuna consapevolezza, nessuna eccitazione, nessun contatto” (219, p. 392).
Nella recente prospettiva dello sviluppo polifonico dei domini, teorizzata da Margherita Spagnuolo Lobb, la modalità di contatto della confluenza, “la capacità di percepire e fare contatto con l’ambiente come se non ci fossero confini, né differenziazioni fra l’organismo e l’ambiente” (340, p. 42) è considerata un dominio. “Questa abilità è alla base dell’empatia, ed è una qualità naturale, che oggi nelle neuroscienze viene chiamata empatia incarnata (vedi 80). […] [Secondo] la prospettiva estetica della psicoterapia della Gestalt: la presenza piena e naturale del bambino, con tutti i sensi aperti al confine di contatto, gli garantisce un’intuizione dell’altro, anche se vi è una scarsa percezione della differenziazione al confine. Il concetto gestaltico di confluenza spiega bene l’intuizione che esiste fra madre e bambino (e che possibilmente permane negli adulti) come sensibilità verso ciò che c’è nell’ambiente, o, per usare un termine fenomenologico, una sensibilità verso un’“evidenza naturale” (cfr. 18). Questo dominio rimane e può essere sviluppato per tutta la vita. Il rischio legato all’esperienza desensibilizzata di questo dominio è la follia: una percezione senza chiarezza e – azzarderei – senza respiro” (340, pp. 42-43). “Per evitare l’ansia, si stabilisce un contatto attraverso questo stile di interruzione della spontaneità: l’eccitazione non si sviluppa perché il processo di differenziazione dell’organismo dall’ambiente non inizia nemmeno” (342, pp. 84-85) (HCC ITALY)
Un episodio di contatto prende avvio quando l’Organismo (O.) avverte la sensazione corporea di un cambiamento. Se in questa fase l’O. non riceve il sostegno adeguato, esso nega le sensazioni che il suo corpo avverte, rimanendo aggrappato all’esperienza nella quale si trova e che non riesce a concludere, sebbene non sia più attuale né nutriente. In GT si dice che l’O. è bloccato in una confluenza disfunzionale, che può essere nevrotica o grave. Nella confluenza psicotica, ad esempio, non esistono confini di contatto ben definiti tra corpo-casa-cosmo, le tre aree di differenziazione che strutturano il rapporto Organismo/Ambiente (88). L’O. non avverte nemmeno l’insorgere di un nuovo bisogno. «Nella confluenza – hanno scritto Perls e Goodman – il nevrotico non è consapevole di nulla e non ha nulla da dire. Il sé che si concentra si sente circondato da un’oscurità oppressiva» (219 p. 267). Non c’è, quindi, alcun contatto con l’eccitazione: l’A. e l’O. si appiattiscono e vengono avvertiti solamente stati d’animo di noia, mancanza di energia, bisogno eccessivo di sicurezza, indisponibilità a reagire alle richieste dell’A. L’O. asserisce di star bene, ma in realtà si tratta di una profonda desensibilizzazione che si manifesta anche a livello corporeo (hcc Kairos)
E’ una modalità di difesa per ridurre le differenze in modo da moderare l’esperienza sconvolgente del nuovo e dell’altro. Antidoti della confluenza sono la differenziazione e la discriminazione: l’individuo inizia a sperimentare le scelte, i bisogni e i sentimenti senza farli coincidere con quelli di altre persone, e impara così che può affrontare il terrore della separazione e restare vivo. Le persone confluenti hanno difficoltà a separarsi, a dissentire, tendono a rinunciare alla responsabilità personale, usano molto il ‘noi’ (IGF)
Il termine confluenza descrive la modalità relazionale tra due individui in cui il Sé di ciascuno non riesce a esprimersi in maniera differenziata dall’altro. Sebbene nella relazione tra la madre e il neonato, la confluenza, sia del tutto normale, svolgendo una funzione di sopravvivenza per il bambino, il processo di crescita e di individuazione del Sé determina successivamente un affrancamento dal contatto simbiotico in direzione di una più sana individuazione volta a stabilire una relazione di interdipendenza (77). Quando questo processo non si sviluppa armonicamente si presenta un blocco nella capacità di indifferenziazione e il rapporto di confluenza con la madre tende a replicarsi in ogni esperienza relazionale. Per l’individuo l’indifferenziazione equivale alla sopravvivenza e per questo le spinte alla confluenza sono rinforzate dal suo stesso timore di separazione (96) (SIPGI)
CONGRUITA’
La Congruità è una condizione di profondo contatto con i propri processi interni, di profonda consapevolezza dei propri bisogni, delle percezioni e sensazioni corporee, delle proprie emozioni, dei propri pensieri. Nella relazione terapeutica la condizione di congruità permette al terapeuta di essere non difensivo nei confronti del proprio paziente, di potersi aprire e di accogliere il mondo dell’altro. La congruità facilita la trasparenza del terapeuta, produce un clima empatico e sicuro. Un terapeuta congruo è presente nella relazione, è centrato sul processo, capace di bilanciare il contatto con la propria esperienze e il contatto con l’esperienza del cliente (123, 132) (ASPIC)
Capacità dell’individuo di sentire, riconoscere ed esprimere con il corpo, il volto e la voce un’ emozione. Alla congruità si associa la sensazione di interezza. Perls, parla di “buchi” nella personalità delle aree corporee in cui l’individuo ha bloccato l’esperienza di contatto per evitare l’angoscia, mediante la desensibilizzazione del distretto corporeo in cui l’eccitazione non può trasformarsi in attività. Il recupero della funzionalità corporea e dell’espressione emotiva permette l’esperienza propriocettiva dell’interezza, della completezza (149, 69, 213,48) (CSP/IGA)
CONSAPEVOLEZZA
Con questo termine possiamo intendere due cose: 1) il flusso permanente di sensazioni, sentimenti e pensieri dal cui sfondo emergono una dopo l’altra le figure («Gestalts» o «Gestalten») che catturano la nostra attenzione. Nelle persone sane questo flusso è scorrevole e regolare; 2) la presenza continua a se stesso dell’individuo in tutte le fasi del ciclo di contatto. La consapevolezza coincide con un’attenzione ampliata all’insieme del proprio sentito corporeo interno ed ambientale. La consapevolezza gestaltica consente di raggiungere l’insight inteso come processo di equilibrio che permette alla persona la presa di coscienza, l’illuminazione, la percezione intuitiva e l’autorivelazione. La consapevolezza nel presente permette alla persona di dire: ‘mi sento arrabbiata’ e non ‘sono arrabbiata’, in questo modo non sono più le emozioni ad avere il controllo sulla stessa e non vi è più l’identificazione in toto con l’emozione. La consapevolezza facilita l’autoregolazione spontanea dell’organismo nel suo naturale movimento di esplorazione, scoperta e apprendimento (inteso come integrazione del sapere, saper fare e saper essere), all’interno del quale mente, corpo e contesto si allineano per facilitare ed acuire il contatto, inteso come il senso dell’interfunzionamento, della persona con l’ambiente. La consapevolezza secondo la Gestalt è la funzione principale delle modalità gestaltiche, e si produce nell’esperienza derivante dall’incontro relazionale tra la persona e il terapeuta. ‘La consapevolezza è un po’ come l’incandescenza di un pezzo di carbone, che gli viene dalla propria combustione; l’introspezione è simile invece alla luce riflessa da un oggetto a sua volta illuminato da una lampada. Nella consapevolezza il processo ha luogo all’interno del pezzo di carbone (organismo totale)’. (Perls, Hefferline, Goodman, 1997, p. 347) Secondo la Gestalt il processo di cambiamento diventa realizzabile solo quando l’individuo raggiunge un’alta consapevolezza di sé, ossia l’autoconsapevolezza. Quando si è autoconsapevoli l’affermazione ‘mi sento arrabbiata’ si trasforma e diventa la capacità della persona di soffermarsi e domandarsi: dove sento la rabbia? Come è fatta? Che cosa significa per me? Cosa sto facendo per sentirmi così? Che cosa sto cercando di evitare? Le domande autoconsapevoli costituiscono la chiave per espandere la consapevolezza e conseguire l’insight (45, 86, 96, 104, 218, 219, 387) (ASPIC)
E’ la capacità dell’organismo di essere percettivamente in contatto con l’esperienza di sè in relazione con il proprio ambiente nel momento presente. Tale esperienze costituisce la base dell’allargamento della coscienza (219,61, 360,48,49) (CSP/IGA)
Il termine consapevolezza indica la capacità di avere cognizione di sé e dell’ambiente intesi come un unico campo, nonché di avere cognizione della formazione delle Gestalt e dell’esperienza di eccitazione che le accompagna; si tratta di un concetto ampio che include la dinamicità della costruzione dell’esperienza nonché tutte le sfumature della percezione: propriocettiva, corporeo-cinestetica, sensoriale, immaginale, cognitiva ed emozionale. Non si tratta di una mera “riflessione” ma di vera e propria integrazione creativa di tutte le componenti dell’esperienza presente e rappresenta la via prioritaria verso il sé. È un modo per entrare in contatto con ciò che in filosofia si definisce Dasein cioè il modo in cui l’essere si esprime nel mondo. Per favorire la presa di consapevolezza Perls propose cinque domande incentrate sul momento presente: «Cosa fai?», «Cosa senti?», «Cosa vuoi?», «Cosa ti aspetti?» e «Che cosa eviti?» che favoriscono la presa di contatto con il sé-nell’ambiente nel qui-ed-ora. L’obiettivo è la riappropriazione delle proprie esperienze spontanee, delle parti negate di sé, della capacità di essere nel proprio corpo, parola, sentimento. Tale processo può essere favorito anche dalla pratica del «continuum di consapevolezza» che consiste nel percepire ed eventualmente verbalizzare lo scorrere delle esperienze nel momento in cui accadono in modo da divenire progressivamente consapevoli del flusso ininterrotto della percezione del sé. Attività intenzionali, come la valutazione, l’interpretazione o la classificazione di ciò che sta accadendo rappresentano delle auto-manipolazioni che favoriscono l’allontanamento dal momento presente. Il «continuum» si avvicina a pratiche meditative orientali come il Vipassana e lo Zazen, ma può essere praticato utilmente anche in modo sporadico, sebbene richieda un certo allenamento, o come strumento terapeutico (387, 214, 219) (CSTG)
“La consapevolezza (in inglese Awareness – difficilmente traducibile in italiano, da distinguere da Consciousness – traducibile con coscienza) è caratterizzata dal contatto, dalla percezione sensoriale, dall’eccitazione e dalla formazione della gestalt. Il suo funzionamento adeguato è il regno della psicologia normale; ogni disturbo passa sotto il titolo della psicopatologia” (219, p. 29). “La consapevolezza viene definita in psicoterapia della Gestalt come un esserci pienamente, presenti ai sensi, all’intenzionalità di contatto e alla carica di eccitazione organismica che caratterizza la ‘normalità’” (337, p. 60). “La consapevolezza serve per mantenerci costantemente aggiornati su noi stessi. E’ un processo continuo, accessibile in qualsiasi momento, e non un’illuminazione esclusiva o sporadica che – come l’insight – può essere raggiunta soltanto in momenti o in condizioni particolari” (228, p. 205). “Il concetto di consapevolezza, ben diverso da quello di coscienza, esprime l’essere presenti ai sensi nel processo del contattare l’ambiente, l’identificarsi in modo spontaneo e armonico con l’intenzionalità di contatto. La consapevolezza è una qualità del contatto e ne rappresenta la ‘normalità’. La nevrosi è al contrario il mantenere l’isolamento (nel campo organismo-ambiente) attraverso un’esasperazione della funzione della consciousness, della coscienza” (342, p. 41). “Per la psicoterapia della Gestalt, lo scopo della cura non è sicuramente la coscienza del sé, ma la spontaneità nel contattare l’altro, il lasciarsi andare alla spontaneità del contatto che è la base della creatività. Dare alla psicoterapia il compito di ripristinare la consapevolezza spontanea (in quanto distinta dalla coscienza) nel contattare l’ambiente significa dare spazio e fiducia alla creatività che è naturale per l’organismo umano in relazione” (342, p. 87) (HCC ITALY)
Si intende per consapevolezza l’operazione di connettere quello che si sta percependo al resto delle conoscenze che si hanno del mondo, tirando le somme del passato, del presente e del futuro, e potendo così calcolare, seppur approssimativamente, gli effetti delle proprie scelte. Il concetto può limitarsi a considerazioni funzionali per la sopravvivenza, ma può estendersi anche ai livelli spirituali dell’esistenza, quelli cioè che si riferisco a valori esistenziali come arte, scienza e politica. Per continuum di consapevolezza si intende condurre questa operazione in modo da tenere continuamente in relazione il mondo interno con quello esterno (IGF)
La consapevolezza ha a che fare con la valorizzazione del livello corporeo e rappresenta un’importante forma di conoscenza poiché apre i canali della comunicazione interiore facendo sperimentare il corpo nel sentire in maniera attenta i segnali che arrivano dall’esterno. E’ soggettiva e a che vedere con l’essere coscienti delle proprie sensazioni, azioni, sentimenti, valori e giudizi, facendo avvertire in maniera spontanea ciò che avviene dentro e fuori di noi. La consapevolezza si risveglia quando si ritorna con l’attenzione ai nostri bisogni profondi e aiuta ad orientare il focus interno, sviluppando un’attenzione diffusa verso l’esterno ed attivando un’eccitazione che ci spinge dall’ascolto interiore verso fuori, per cercare nell’ambiente tutto ciò che possa soddisfare il nostro bisogno emerso. Una buona consapevolezza di sé stessi e di ciò che avviene al confine di contatto rende migliore la qualità del contatto, guidandoci verso l’autorealizzazione ed un senso di connessione. L’identità si aggiorna e la persona stabilisce un funzionamento più armonico all’interno dell’alternanza tra le sensazioni/ emozioni e le azioni/comportamenti. E’ dunque un riconoscimento spontaneo e chiaro di dove finisce la persona e dove inizia l’Altro e riconoscere e ripristinare il processo di consapevolezza, il continuum di consapevolezza, porta la persona a focalizzare i modi migliori per connettersi gli uni agli altri (227). La psicoterapia suggerisce delle domande nell’esperienza terapeutica per favorire questo processo di consapevolezza, come “ Di cosa sei consapevole ora”, “ Che cosa senti?”, “ che cosa stai facendo ora? “, “ Che cosa vuoi ora?”. Questo in terapia permette alle persona a livello individuale di aggiornare la propria percezione di sé ( come le sensazioni, i desideri, le idee), di valorizzare le proprie risorse, di riconoscere l’esperienza e trovarne un significato consapevole. A livello di relazione permette un movimento armonico della persona verso l’altro e viceversa, di riconoscere l’esperienza condivisa e della sua eventuale conclusione e di mettere in evidenza quali sono le risorse comuni, effettuando una simbolizzazione dell’esperienza di relazione e connessione (SIG)
CONSAPEVOLEZZA (CONTINUUM DI)
La capacità di un organismo sano di mantenere un regolare scorrevole flusso delle sensazioni emergenti dai propri bisogni, organizzandosi percettivamente in figura (219,61, 360,49) (CSP/IGA)
Il continuo di consapevolezza è la costante e incessante pratica di perseguire “un sano atteggiamento centrato sul presente” (203). Caratteristiche fondanti sono la concentrazione e l’osservazione dell’esperienza della mente, che si presenta attraverso i pensieri, le sensazioni e le emozioni che attimo dopo attimo entrano nella consapevolezza dell’individuo. È un flusso di informazioni che procede ininterrotto, dalle interferenze di passato e futuro, per accompagnare l’individuo nel contatto con il presente.
Le esperienze del continuo si sviluppano seguendo “una linea ben determinata. Iniziano dal vuoto, procedono fino al culmine e poi si esauriscono tornando al vuoto, uno stato della mente nel quale aumenta la capacità di presenza e la potenzialità senza forma” (65). Con il procedere della connessione con il qui ed ora, aumenta la responsabilità intesa come esperienza che permette di dare risposte congruenti agli stimoli ricevuti. Dalla ricerca del vuoto al suo sviluppo creativo e fruttuoso, fino alla riscoperta di nuovi spazi fertili, il ciclo continuo della consapevolezza apre le porte a nuove possibilità, che si concretizzano e si dissolvono nell’esperienza ininterrotta dell’hic et nunc (IGAT)
Il continuum di consapevolezza è la connessione del “momento dopo momento” (227), essa rende serrate le sequenze, direziona i nostri sensi, le nostre emozioni, il nostro corpo, genera coinvolgimento, interesse e concentrazione in quello che stiamo facendo. La connessione momento dopo momento focalizza le sequenze serrate nella reciproca e invisibile connessione. La connessione si interrompe quando la persona affievolisce la fiducia in se stesso, nell’altro o nell’ambiente. L’interruzione produce confusione, impasse, malessere. Questi ostacoli sono dovuti alla perdita dell’autostima e alla sfiducia circa le capacità personali di fronteggiare una difficoltà, un imprevisto, un trauma (SIG)
CONTATTO
Concetto centrale della terapia della Gestalt. Il contatto riguarda tutto ciò che avviene tra organismo e ambiente. La teoria della Gestalt analizza i modi in cui nel qui e ora di un episodio di contatto l’organismo, per soddisfare il suo bisogno, instaura, mantiene e porta a termine il contatto con l’ambiente. La terapia si attua al confine – contatto tra l’organismo ed il suo ambiente (149, 176, 219, 228) (CSP/IGA)
Nella psicoterapia della Gestalt, ci si riferisce con questo termine alla dimensione boi-psico-sociale della relazione con noi stessi (mondo interno) e con gli altri e il mondo esterno. Il termine, da “con-tatto” appunto, rimanda a qualcosa di diverso dal termine comunicazione, che implica un passaggio di informazioni di carattere segnico e quindi più astratto. Uno spostare l’attenzione da un primato del pensiero (che tocca il suo apice nel cartesiano «cogito ergo sum») a un heideggeriano Da-sein, un «esser-ci» (nel mondo) che precede (il pensarci). E di qui all’«esserci-con» nella piena consapevolezza di un corpo che «siamo» e non che «abbiamo». Di qui ancora l’attenzione, sviluppatasi in particolare in ambito gestaltico, per quei “fenomeni di confine” nei quali si esprime il particolare stile relazionale di ciascuno – e che passa per «teoria del sé» – definito da F. Perls come «funzione dell’adattamento creativo» tra organismo (o individuo, se dotato di coscienza autoriflessiva) e ambiente. Tale concezione viene ripresa anche da D. Anzieau che nel suo Io-pelle sottolinea come «l’esperienza si verifica ai confini tra l’organismo e il suo ambiente, fondamentalmente nell’epidermide e negli organi di risposta sensoriale e motoria», allacciandosi a quanto lo stesso Freud afferma descrivendo la funzione di «barriera/contatto» consente il passaggio di informazioni. Le modalità relazionali si giocano, in questa prospettiva, nella efficacia o meno di come la «membrana sé» sa essere osmotica nel consentire e selezionare il passaggio di informazioni nella duplice direzione mondo interno-mondo esterno e viceversa. Di qui le diverse possibilità di interazione Individuo/Ambiente definibili come: confluenza, egotismo, introiezione, proiezione, retroflessione, proflessione e deflessione (70, 219, 386) (CSTG)
“L’esperienza è in ultima analisi contatto, funzionamento del confine tra organismo e ambiente. […] Il contatto consiste nella consapevolezza del campo o nella risposta motoria nel campo. […] Principalmente, il contatto è la consapevolezza della novità assimilabile e il comportamento assunto nei suoi confronti; nonché il respingimento della novità non assimilabile. Qualunque esperienza dilagante, ripetitiva o indifferente, non può costituire un oggetto di contatto” (219, pp. 39-40).
“Le funzioni fisiologiche dell’organismo umano animale si compiono all’interno dell’organismo, ma non possono farlo a lungo senza assimilare qualcosa dall’ambiente e senza svilupparsi. Per assimilare qualcosa dall’ambiente, l’organismo deve contattare l’ambiente, cioè deve andare verso e prendere. Il fisiologico potrà diventare psicologico, le funzioni conservative contatto. L’autoregolazione conservativa esige dall’organismo questo contatto permanente (per esempio attraverso il respiro) o episodico (per esempio con l’alimentazione) con l’ambiente. Le funzioni di contatto sono indispensabili per assicurare l’auto-conservazione, cioè la sopravvivenza. […] Il contatto comporta un oggetto esterno, un non-sé. […] È attraverso il contatto che l’organismo stabilisce e mantiene la sua differenza, e ancora di più, è assimilando l’ambiente che esso nutre la sua differenza. Goodman mostra come attraverso il contatto e l’assimilazione, il dissimile viene reso simile attraverso le varie modalità di interiorizzazione, diventa “io”, io diverso dal precedente” (280, pp. 40-41) (HCC ITALY)
Il mondo interiore/interpersonale del soggetto non è un succedersi lineare di vissuti, ma un continuo alternarsi di ‘episodi di contatto’, vale a dire di processi di formazione/ distruzione/ ristrutturazione delle gestalt all’interno delle molteplici esperienze di contatto dell’Organismo (O.) con il suo Ambiente (A.) (308). Ogni episodio di contatto inizia con l’intenzionalità dell’O. di modificare il rapporto con l’A. e si dispiega lungo un continuum temporale racchiuso tra un inizio e una conclusione in una serie di tappe che progressivamente conducono ad un nuovo rapporto O.-A. Innanzitutto l’O. deve identificare il bisogno relazionale, decodificando segnali che emergono alla superficie di contatto o che vengono evocati dall’A. Quindi deve orientarsi e discriminare il bisogno all’interno del proprio quadro di riferimento. Segue la fase della manipolazione tra l’intenzione dell’O. e le esigenze dell’A., che sfocia infine in un contatto, dopo il quale l’episodio si chiude (294). Quando l’O. si mette in azione per portare avanti un episodio di contatto, instaura una sequenzialità di gesti che si succedono fino al contatto pieno. L’intenzionalità instaura una sorta di ‘spontaneità ineluttabile’, per cui all’interno del processo ogni gesto è come intimamente direzionato verso il proseguimento della sequenzialità. Ciò non altera la spontaneità della sequenza, perché i gesti rimangono imprevedibili (regola dell’azione mediana – attiva e passiva insieme). Se l’episodio si è dispiegato in modo spontaneo, ci si ritira dal contatto e si ritorna a se stessi per assimilare l’esperienza (300). Se il processo si interrompe, il gesto mancato – di cui il soggetto non è consapevole – rimane presente a livello subliminale nella memoria corporea e si trasforma in ansia ogni volta che il desiderio riemerge (299). La mancanza di sostegno interrompe il cammino dell’O. verso l’A.: a seconda della fase in cui avviene tale interruzione si configurano diverse forme di disagio psichico (307) (hcc Kairos)
Si tratta di una metafora che indica un genere di rapporto dove “passa corrente” e trasforma le persone coinvolte: nell’accezione comune del termine infatti toccare implica un effetto che le parti fanno una sull’altra. La frontiera del contatto è da un lato la parte di sé che le persone mettono in gioco al momento dell’incontro, dall’altro il luogo, in senso metaforico, dove avviene l’incontro: un’immagine che senza interpretazioni evoca i dettagli dell’evento, facilitando fra l’altro la visione dei meccanismi di difesa in atto.
Il contatto stesso, per quanto sia un insieme vivo e inscindibile in parti, può essere esplicitato nei suoi vari aspetti. Nella Gestalt ad orientamento fenomenologico-esistenziale, per “essere in contatto” si intende avere un tipo di rapporto efficace, che abbia cioè un qualche effetto sugli interlocutori: un rapporto insomma che non lascia le cose come erano prima, un rapporto che trasforma. Come la logica si dice formale perché è definita dal rispetto della successione formale delle proposizioni logiche (vedi per es. il sillogismo), così anche il contatto è definito qui dal rispetto della sua forma: è in contatto chi hic et nunc si rende conto di cosa sente, sceglie cosa desidera, decide cosa fare e poi avendolo fatto, verifica cosa sente, e non è in contatto chi salta nella sua coscienza anche solo un passaggio. [vedi: Interruzioni del contatto] Il contatto è definito dunque dagli aspetti con cui si presenta nella coscienza. Scomponendo il fenomeno del contatto in fasi, possiamo immaginare una spirale, appunto la spirale del contatto (IGF)
Il contatto è la capacità di cogliere intenzionalmente e consapevolmente, attribuendole un significato, la novità di una situazione, la parte rilevante dell’esperienza, che si manifesta nella formazione di una figura in relazione allo sfondo da cui emerge, nel suo dispiegarsi qui e ora. Esso
implica di conseguenza un’azione aggressiva, un andare verso, un’intenzionalità di comprendere e incontrare la novità, la diversità.
Se la figura rilevante è un altro essere vivente, il contatto può diventare incontro, momento in cui i partner, pur mantenendo la propria soggettività e autonomia, si comprendono nella loro reciproca essenza. La percezione e l’accoglienza delle emozioni, dei vissuti e dei pensieri dell’altro, genera
una qualità d’intensità molto particolare che deriva dal sentirsi visti, capiti, accettati e corrisposti nella propria essenza, sia nella somiglianza che nella differenza. Essere in contatto, incontrarsi, implica essere necessariamente autentici.
Essenza dell’incontro con la novità, il contatto non può che essere adattamento creativo, in cui le categorie e gli schemi emozionali e cognitivi con cui tendiamo a organizzare spontaneamente la situazione, si formano e trasformano come risultato del momento di contatto in sé e dell’assimilazione di nuovi elementi. Adattamenti creativi sono stati quindi all’origine anche i comportamenti nevrotici e sintomatici, modalità rigide o estreme di far fronte a un ambiente vissuto come particolarmente difficile, anche se tale rigidità può diventare successivamente ostacolo a nuovi adattamenti creativi (SGT)
La psicoterapia della Gestalt sin dalle origini evidenzia l’attenzione al contatto nella relazione con l’ambiente e nella relazione terapeutica e sostiene che il rapporto individuo-ambiente é fonte di crescita e di stimolazione e che l’elemento fondamentale di tale rapporto é il contatto. Il buon funzionamento, quindi, lo si può valutare dalla qualità del contatto, dalla capacità dell’individuo di rispondere in modo flessibile e creativo con persistenza e chiarezza all’interno di un ambiente che suscita interesse e corrisponde ai suoi bisogni. La Gestalt Psicosociale identifica un tipo particolare di confine di contatto : il “gate”, il “cancello” che si varca nell’esplorazione e che lascia intravedere l’orizzonte. Al di qua, il conosciuto, al di là, l’ignoto e la tendenza all’esplorazione. Il ritmo tra l’attaccamento e l’esplorazione, il movimento tra questi due principi organizzatori definisce l’equilibrio e il benessere della persona o al contrario, la patologia e il malessere. E così nella prassi terapeutica, lo psicoterapeuta crea esperienze e possibilità attraverso le quali il paziente da un lato sperimenta nella relazione, dall’altro si riconosce come esploratore curioso (SIG)
CONTATTO (CICLO)
Il contatto riguarda tutto ciò che avviene tra Organismo ed Ambiente. Si tratta di un processo e non di uno stato. Per Perls e Goodman ci sono quattro fasi del ciclo di contatto: pre-contatto, contatto, contatto finale, post-contatto. Alcuni autori descrivono il ciclo del contatto come articolato in quattro fasi, altri in sei, sette oppure otto (35, 61, 149, 219, 225, 409, 379) (CSP/IGA)
“L’esperienza di contatto viene descritta secondo quattro fasi, ciascuna con un accento diverso nella dinamica figura/sfondo. L’attivazione del sé viene chiamata pre-contatto, il momento in cui emergono delle eccitazioni che iniziano il processo figura/sfondo […]. Nella fase successiva, quella del contatto, il sé si espande verso il confine di contatto con l’ambiente, seguendo l’eccitazione che, in una sottofase di orientamento, lo conduce ad esplorare l’ambiente, in cerca di un oggetto o di una serie di possibilità. […] In una seconda sottofase di manipolazione, il sé “manipola” l’ambiente, scegliendo certe possibilità e rifiutandone altre, scegliendo certe parti dell’ambiente e superando ostacoli […]. Nella terza fase, il contatto-finale, l’obiettivo finale, il contatto, diventa figura, mentre l’ambiente e il corpo costituiscono lo sfondo. Tutto il sé è preso nell’atto spontaneo del contattare l’ambiente, la consapevolezza è al massimo, il sé è pienamente presente al confine di contatto con l’ambiente e l’abilità di scegliere viene rilassata perché non c’è nulla da scegliere in quel momento. È in questa fase che avviene lo scambio nutriente con l’ambiente, con la novità. Questa, una volta assimilata, contribuirà alla crescita dell’organismo. Nell’ultima fase, del post-contatto, il sé diminuisce per lasciare all’organismo la possibilità di digerire la novità acquisita e di integrarla, in modo inconsapevole, nella struttura preesistente. Il processo di assimilazione è sempre inconsapevole e involontario” (342, pp. 81-82) (HCC ITALY)
L’espressione indica una caratteristica importante del contatto: questo avviene per gradi, necessari uno all’altro come i gradini di una scala, e importanti da riconoscere per la funzionalità dell’evento. Anche con “spirale del contatto” si indicano gradini di approssimazione all’evento, disposti in uno spazio tridimensionale con un andamento a spirale: i gradini che qui si prendono in considerazione sono sentire e pensare, due aree incommensurabili che danno luogo per via dialettica al fare. La metafora del contatto può anche essere espressa con l’immagine della “distanza abitata”, con cui si mette in luce elementi di intenzionalità, più congrui all’evento che non le semplici contiguità meccaniche e passive (IGF)
Il processo che descrive la soddisfazione dei bisogni è spesso chiamato ciclo del contatto. Si tratta ciclo che descrive come avviene nel dettaglio il processo indispensabile della realizzazione di un bisogno emergente e sottolinea che si tratta di un processo con un inizio e una fine. La parola contatto è una metafora e può essere descritto come “Esperienza” nell’ambito della soddisfazione dei bisogni (169). Essere “in contatto” con qualcosa di simile di essere “in esperienza” con qualcosa che ni interessa. Dal punto di vista fenomenologico-esistenziale si tratta di un processo intenzionale e come tale produce un effetto. All’inizio del processo sta una sensazione (freddo, sete ecc.) o un’emozione (paura, rabbia ecc.) che attiva l’organismo a reagire e soddisfare il bisogno emerso [figura/sfondo]. Il soggetto si occupa di “che cosa sente” e diventa consapevole di ciò che sente attribuendo un significato alla sensazione /emozione (ho freddo, ho sete, ho paura, sono arrabbiato ecc.) (165). Si trova in “pre-contatto”. Successivamente si chiede “che cosa vuole” e si occupa di possibilità e strategia per la soddisfazione del bisogno. Si trova in piena attività cognitiva. La persona immagina, riflette e valuta. Si trova in “contatto” con ciò che li interessa. Valutato le conseguenze di una scelta o l’altra entra in ”azione” e si occupa della realizzazione effettiva del bisogno facendo qualcosa. Si trova in “contatto pieno”. La sua azione ha prodotto un effetto, cioè sente di nuovo qualcosa, o è soddisfatto o è insoddisfatto. Questa verifica è il “post-contatto”, l’apprendimento (166), ovvero “cosa sento dopo aver fatto”. Il ciclo del contatto è dunque costituito dal “pre-contatto, contatto, contatto pieno e post-contatto”, ovvero dalla sequenza di “sentire, pensare, agire e sentire dopo aver agito”. Più che un ciclo che si ripete si tratta di una spirale in cui ogni esperienza compiuta arricchisce e cambia l’individuo per sempre (IGP)
CONTATTO (CONFINE)
La nozione di contatto, definito come scansione ritmica dell’incontro terapeutico caratterizzato dalla relazione e dalla pausa conduce il soggetto a recuperare il confine della propria autonomia agevolando il processo di individuazione e autonomia. È qui che si sviluppa il confine-contatto, la linea di demarcazione e il punto d’incontro tra l’individuo e l’ambiente, il limite di separazione e unione, tra la persona e tutto ciò che non fa parte di essa. Nella relazione terapeutica il confine terapeutico è rappresentato dalla funzione delimitante del setting che si concretizza in una serie di elementi ‘discreti’ con cui si individuano e si differenziano, all’interno di una gamma estremamente vasta di opzioni possibili, quelle in cui collocare l’intervento clinico come linea reale o immaginaria che delimita una proprietà o un territorio, assume particolare rilevanza nell’ambito dell’esperienza relazionale di ogni individuo. Il setting con la sua stabilità e continuità di tempo e di luogo, con la presenza di regole ben definite, entra in sintonia con il bisogno di protezione del cliente, per aiutarlo ad aprirsi alla comunicazione con il suo mondo interno, all’ascolto delle emozioni, dei ricordi, dei sogni. Il setting in quest’ottica rappresenta l’insieme di elementi che permettono al terapeuta di esercitare il proprio lavoro, offrendo al cliente delle caratteristiche specifiche e ben individuabili. Nel processo gestaltico, il terapeuta utilizza le regole del setting con flessibilità, personalizzandolo sul proprio cliente. La gestione del confine relazionale si struttura sul percorso di crescita individuale dello psicoterapeuta e del cliente, costituendo il campo d’azione utile all’espressione emotiva. In questo costante scambio relazionale, il clinico grazie ad una consapevolezza profonda delle dinamiche interne personali supporta e dirige il cliente nell’espressione dei bisogni posti sullo sfondo, cercando sempre una rappresentazione figurale (115, 215) (ASPIC)
Nozione fondamentale in gestalt. Descrive lo “spaziotempo” psicologico, sensorialmente basato, all’interno di un campo in cui si realizza il processo di contatto tra l’individuo e l’ambiente (38, 61, 86, 127, 161, 219, 379) (CSP/IGA)
“Il confine (in inglese Boundary) emerge come il luogo dove «funziona» il sé e dove, di volta in volta, si configura una consapevolezza che, pur afferendo a uno specifico organismo, è sempre consapevolezza-di-qualcosa che è nell’ambiente o che ad esso rimanda” (336, p. 53). “Il confine dell’Io di una persona delimita ciò che per essa è permissibile di contatto. E’ composto da tutta una gamma di confini di contatto e definisce quelle azioni, idee, persone, valori, sistemi, immagini, ricordi, e così via in cui l’organismo ha intenzione di impegnarsi pienamente sia nel rapporto con il mondo esterno che con le risonanze interiori che questo coinvolgimento può risvegliare” (228 p. 104). “Sul confine, che separa e pone in contatto il mondo fisico con il mondo dei significati, viene sperimentato il campo organismo-ambiente e hanno radice gli stati mentali e il loro organizzarsi” (39, p. 113).
“Il confine di contatto (in inglese Contact Boundary) è il punto in cui si verifica l’esperienza, non separa l’organismo dal suo ambiente, assolve piuttosto alla funzione di limitare l’organismo, di contenerlo e proteggerlo, e allo stesso tempo si pone in contatto con l’ambiente Potremmo dire che il confine di contatto – per esempio la pelle sensibile – più che essere parte dell’‘organismo’, è invece, in sostanza, l’organo di un particolare rapporto tra l’organismo e l’ambiente” (219, p. 39).
“La ‘dimensione terza’ tra l’organismo e l’ambiente è il confine di contatto. E’ un punto di inter-connessione e costituisce, forse, la differenza più significativa tra l’accezione di campo data dalla psicoterapia della Gestalt e quella espressa da Lewin” (39, p. 93). “L’attività del contattare l’ambiente (o dell’essere contattati) avviene attraverso una demarcazione esperienziale – e per nulla necessariamente fisica – tra ciò che per l’organismo rappresenta se stesso […] e la regione selvaggia, in quanto ancora sconosciuta, che è l’alterità del mondo” (39, p. 18). (HCC ITALY)
Per gli Autori di Gestalt Therapy, il confine di contatto è il luogo in cui avviene il contatto tra l’Organismo (O.) ed il suo Ambiente (A.), lo spazio dinamico relazionale che si costruisce di volta in volta quando O. e A. si incontrano. «Quando diciamo ‘confine’ pensiamo a un ‘confine tra’; tuttavia il confine di contatto, il punto in cui si verifica l’esperienza, non separa l’O. dal suo A.; esso assolve piuttosto alla funzione di limitare l’organismo, di contenerlo e proteggerlo, e allo stesso tempo di porlo in contatto con l’ambiente» (219, p. 39). Il confine ‘tra’ è una struttura ontologica originaria poiché l’esistere di ogni cosa (animata e inanimata) è un esistere tra altre cose. L’uomo è un essere ‘tra’, vive in un’inevitabile traità che è costitutivamente corporea e intercorporea (310). La scelta di campo della GT è partire dall’esperienza corporea perché è proprio nel corpo (i cinque sensi, la pelle, le parole) il luogo (il confine di contatto) in cui il Sé si posiziona quando deve entrare in contatto con l’ambiente. O. e A. sono due realtà sempre in contatto in uno sfondo, da cui emerge, di volta in volta, l’intenzionalità tendente al cambiamento di una modalità relazionale, che inaugura un episodio di contatto (308). E’ proprio ciò che avviene in questo confine che è disponibile alla nostra osservazione e all’eventuale intervento terapeutico. Esso è visibile, descrivibile e rimanda ai vissuti relazionali. Se il percorso che porta l’O. al contatto con l’A. si interrompe anche la crescita dell’O. fallisce in quanto l’eccitazione ad esso correlata diventa fonte di angoscia e non permette all’O. di portare a termine la propria intenzionalità (300, 307) (hcc Kairos)
Contatto in Gestalt è una metafora che indica un genere di rapporto dove “passa corrente” e trasforma le persone coinvolte: nell’accezione comune del termine infatti toccare implica un effetto che le parti fanno una sull’altra. Quando due elementi si incontrano lo fanno solo parzialmente, altrimenti non si tratterebbe di contatto ma di sovrapposizione: con l’espressione confine di contatto ci si riferisce all’area dove i due elementi operano uno scambio. Il confine di contatto non esiste come struttura, e nemmeno il confine dell’io, espressione che allude all’estensione dell’area del mondo interno che la persona è in grado di amministrare. Trattandosi di metafore, le conseguenze che si possono tirare sono anch’esse metaforiche: confine di contatto metaforizza la parte di sé che le persone mettono in gioco al momento dell’incontro, e il luogo, sempre in senso metaforico, dove avviene l’incontro, un’immagine che senza interpretazioni evoca i dettagli dell’evento, facilitando fra l’altro la visione dei meccanismi di difesa in atto. Rovesciando il punto di vista, guardando cioè la distanza fra le persone, essere in contatto o no si riferisce alla differenza fra spazio abitato e disabitato: essere in contatto implica che questo spazio, tanto o poco che sia, è abitato, metafora che evoca movimenti piuttosto che strutture e che permette di entrare con l’immaginazione nei processi vitali che supportano il cambiamento. In questa metafora il termine confine di contatto si riferisce alle operazioni emozionali cognitive e attuative in cui le persone accettano di farsi coinvolgere (IGF)
Il ‘confine di contatto’ ha una duplice funzione: da un lato permette alle persone di entrare in relazione; dall’altro, consente l’individuazione e il mantenimento della separazione di ciascuno da ciascun altro. La totale assenza di contatto emotivo o, al contrario, la completa ‘con-fusione’ emotiva nelle relazioni interpersonali sono causa di disagi gravi e profondi. L’entrare in contatto permette di soddisfare un gran numero di bisogni biologici, sociali e psicologici, così come la separazione consente non solo di mantenere l’autonomia e di proteggere contro le intrusioni pericolose ma anche permette ai bisogni di contatto di manifestarsi con pienezza e chiarezza. È attraverso le funzioni di contatto e di separazione che l’individuo stabilisce i suoi confini e costruisce la propria identità. La crescita e lo sviluppo della personalità, guidate dal principio di autoregolazione, procedono attraverso esperienze di contatto nelle quali l’individuo apprende a differenziare ciò che è utile per sé da ciò che è dannoso (IPGE)
E’ quello spazio, quel “tra” che esiste tra l’io e il tu, tra un organismo e un ambiente, che permette lo scambio, l’incontro o il rifiuto. E’ come la membrana nella cellula, ciò che permette lo scambio di informazioni tra una cellula e un’altra. E’ il “vuoto” all’interno del quale si sviluppa il processo di contatto e senza il quale non potrebbe esserci né scambio né differenziazione (SGT)
Linea di demarcazione tra l’Io e il Tu. È il luogo dove ci giochiamo l’esperienza della relazione e del viaggio verso l’esplorazione del mondo. Già Schopenhauer narrava del dilemma di due porcospini che, in una notte d’inverno, volevano riscaldarsi a vicenda, senza pungersi. Di questo famoso dilemma la Psicoterapia della Gestalt ha fatto uno dei suoi temi organizzatori: il confine che separa, é paradossalmente anche ciò che, nel contatto, unisce. Il concetto di confine di contatto é una formulazione della Psicoterapia della Gestalt, che riconosce la natura paradossale del contatto, ove l’organismo mantiene la propria separazione e, contemporaneamente, ricerca l’assimilazione e l’unione. Il confine di contatto scandisce il ritmo delle relazioni affettive: mi lego a te/mi slego da te. In questa danza della relazione avviene il contatto-con e il ritiro-da. Facciamo contatto quando lavoriamo, giochiamo, piangiamo. La Gestalt psicosociale, in particolare, include nell’esperienza di contatto con l’altro e l’ambiente sia il senso di appartenenza, sia il senso di separazione per affermare se stessi, mantenendo la connessione con l’altro (188, 189) (SIG)
CONTROTRANSFERT
Quando si parla di controtransfert oggi si distingue il materiale portato dal terapeuta detto controtransfert proattivo (transfert realmente patologico del terapeuta verso il paziente) e il materiale del paziente cui il terapeuta reagisce, chiamato transfert reattivo o induttivo. Tale differenziazione distingue i due tipi principali di controtransfert a seconda se lo psicoterapeuta reagisce al paziente o se introduce proattivamente il suo stesso transfert nella relazione psicoterapeutica.
È importante ricordare che i fenomeni transferali e controtransferali si esprimono non soltanto nei contenuti verbali ma anche in modalità non verbali, tramite il linguaggio del corpo, gli odori o i tratti dell’atmosfera o del contesto (46, 86, 195) (ASPIC)
E’ l’insieme dei vissuti inconsci del terapeuta in risposta alla relazione del paziente all’interno del processo terapeutico (61,49,276) (CSP/IGA)
CORPO
Il corpo, superata una concezione riduzionistica di derivazione post-platonica che attraversa il tema della conoscenza nella cultura dell’occidente, è più che il corpo. Per riprendere Nietzsche, da La volontà di potenza “E’ essenziale partire dal corpo e utilizzarlo come guida. Credere nel corpo è più fondamentale del credere nello spirito”. L’enfasi posta dall’approccio della Gestalt sul corpo ha portato non raramente ad inserire la stessa tra gli approcci psico-corporei.
Perls riconosce a Wilhelm Reich come “la sua nozione di identità funzionale all’interno di un fenomeno corporale (contratture e tensioni muscolari) e uno emozionale e pertanto psicologico (la difesa), fu la chiave per il lavoro sul corpo e la somatizzazione. Ciò implicò la consapevolezza che i fenomeni mentali e quelli fisici formavano una unità. Reich fu il primo a mettere in relazione con chiarezza il funzionamento corporale e psicologico come un tutto unico e formulò anche la prima metodologia somatica o ‘lavoro corporeo’ consentendo la liberazione di emozioni e di energia psichica bloccata come una espressione di conflitti e fissazioni nello sviluppo”.
Perls fa inoltre un frequente riferimento anche al lavoro 1) di M. F. Alexander incentrato sull’aiutare il paziente ad acquistare coscienza dei dettagli della sua postura e dei suoi movimenti e 2) di E. Jacobson, psicofisiologo americano che elaborò il metodo del “rilassamento progressivo”.
Importanti anche i contributi di Laura Perls che riferisce come “Nella pratica l’abitudine di centrarsi nella coscienza del corpo non fu incorporata alla Terapia della Gestalt attraverso il lavoro di Reich, bensì fu dovuto dell’euritmia e alla danza contemporanea, ai miei studi di movimento espressivo e creatività ispirati all’opera di Ludwig Klages, alla mia conoscenza dei metodi di G. Alexander e M. Feldenkrais” (69, 61, 86, 217, 219, 222, 387) (CSTG)
“Ogni atto di contatto costituisce una totalità di consapevolezza, di risposta motoria e di sentimento – una collaborazione tra i sistemi sensoriali, muscolari e vegetativi – che ha luogo al confine di superficie nel campo organismo-ambiente” (219, p. 68). “Nell’epistemologia gestaltica, l’esperienza è sempre corporea ed è una funzione emergente del campo fenomenologico in cui si è immersi” (342, p. 47).“Se per Reich il corpo era la sede della repressione dei conflitti, e per Perls era il mezzo privilegiato di espressione di un’esperienza esistenziale e olistica, per gli autori gestaltici contemporanei (in particolare 149; 69) il corpo è l’organo di contatto per eccellenza, che raccoglie sia la memoria dei contatti precedenti che la creazione dei contatti attuali” (339, p. 95). “Il terapeuta della Gestalt lavora tenendo presente il doppio binario del ‘livello diacronico dell’esperienza corporea, che costituisce lo sfondo dell’esperienza del paziente, e il livello sincronico, costituito dalla figura del disagio attuale e dell’intenzionalità di contatto che cerca di portare a compimento’ ” (21, pp. 119-120). “[…] ogni relazione con l’altro costituisce sempre un’esperienza “incarnata”, intensamente vissuta sul piano “estetico”, incessantemente mediata e attivata dai canali percettivi, dagli organi di senso” (342, p. 44). “Dunque, non è soltanto una modalità percettiva soggettiva (come nello studio degli psicologi della Gestalt) quella che viene confermata dal sistema mirror e dalla teoria della simulazione incarnata, ma una abilità adattiva che deve necessariamente includere l’altro, il movimento dell’altro, attraverso un processo spontaneo di adattamento creativo, […] che per noi corrisponde al farsi del sé nel contatto.[…] Il corpo è il nostro primo sé, la funzione integratrice dell’essere-con.[…] Quindi potremmo definire l’esperienza corporea come emergenza di un processo integrativo, fondamentalmente motorio, di ciò che è percepito al confine di contatto con l’ambiente” (342, pp. 47-49) (HCC ITALY)
Il corpo è il principale canale attraverso cui ci arriva il sentirci accettati o non accettati sia da noi stessi che dagli altri. Infatti, il corpo è il primo veicolo della relazione e del contatto madre-bambino. Tre sono i principali modi per entrare in contatto con il nostro corpo: Pensiamo il corpo, sentiamo il corpo, muoviamo il corpo. Il Corpo Pensato rappresenta il primo contatto che abbiamo avuto: la mamma ci ha comunicato se provava per noi accettazione o non accettazione da come ci ha toccato, guardato, accarezzato, da come si è presa cura di noi. Il corpo è il primo veicolo dell’amore o dell’ambivalenza che gli altri hanno provato per noi. Quanto e come l’altro ci ha amato resterà impresso nel nostro ricordo e ancor di più nel nostro modo pensiamo il nostro corpo. L’ascoltare questo diverso “sentire” del corpo fatto di sensazioni, emozioni, consapevolezza, contatto, ci allena a percepire più velocemente e con meno filtri razionali il grado di malessere o benessere che stiamo vivendo sia nel rapporto con noi stessi che nelle relazioni. Il corpo ha una sua saggezza che se ci abituiamo a “sentire” ci accompagnerà sempre, come una preziosa bussala di orientamento nel mondo. Ma un terzo passaggio è quando il corpo è in movimento e quindi dalla pietrificazione all’azione del corpo. Il corpo in azione è vissuto momento per momento, esperienza dopo esperienza. Imparare a esprimersi anche attraverso il corpo in azione, ci apre ad un rapporto con noi stessi più saldo nella vita quotidiana, meno imprigionato in ansie e paure di non accettazione. Il corpo in movimento esprime il canale della comunicazione non verbale, che solitamente viene filtrato e rallentato dalla razionalità, dai modelli imposti, dalla paura di non piacere (SIG)
DEFLESSIONE
La deflessione è una delle più frequenti interruzioni del ciclo di contatto. Una sensazione interna di insicurezza porta la persona, una volta prossima al confine di contatto, a fuggire (volgendo gli occhi altrove, intellettualizzando, ecc.). Le paure radicate nel soggetto rimandano sovente alla sua storia di attaccamento e vengono automaticamente rivissute nel presente. Inconsapevolmente il rapporto con l’altro tende a polarizzarsi: la persona che deflette rimane in una posizione di dipendenza da un’altra dominante. Alla base di questa dinamica c’è la difficoltà del soggetto ad abbandonare i vecchi messaggi, rimanendo nel vittimismo che ha conosciuto nella prima parte della vita. I modelli genitoriali, spesso altrettanto orientati alla fuga, si trasmettono al futuro adulto che ha difficoltà a direzionare energie e attenzione verso l’ambiente per soddisfare i suoi bisogni (86, 104, 228, 214) (ASPIC)
E’ una resistenza al contatto finale che consiste nel mettere in atto tutti quei comportamenti incongrui verbali e non verbali, al fine di spostare l’attenzione e fuggire dall’esperienza vissuta nel qui ed ora (219,61) (CSP/IGA)
La deflessione, nella Psicoterapia della Gestalt, è una manovra che tende ad attenuare od evitare la pregnanza del contatto diretto con un’altra persona nel qui ed ora della relazione.
Esistono modalità deflessive che, agite consapevolmente, hanno a che fare con atteggiamenti e strategie comunicative diplomatiche o di convenienza politica.
In senso clinico, si tratta di una deviazione dell’intensità del contatto, della quale il soggetto può essere più o meno consapevole, e che viene attuata con varie modalità, sia verbali che corporee. Alcune modalità di tipo verbale, sono, ad esempio, l’utilizzo di circonlocuzioni, il cambiare repentinamente discorso, l’eccessivo dilungarsi in convenevoli o in premesse, il parlare genericamente invece di riferirsi a sé, il parlare astrattamente, il disperdersi in distinguo non essenziali, logorrea o verbosità senza costrutto.
Alcune modalità di tipo deflessivo agite attraverso il corpo sono, ad esempio, non guardare negli occhi l’interlocutore, sonnecchiare durante il colloquio, assumere un atteggiamento distratto od inespressivo, fissare lo sguardo su particolari dello sfondo, eccetera.
La deflessione, nelle sue forme disfunzionali, scaturisce da una sfiducia nella relazione o nella propria capacità di sostenerla, dovuta ad esperienze negative pregresse, e si esprime in una sostanziale retroflessione dell’impulso al contatto (86, 228, 387) (CSTG)
DOVERISMO
Il doverismo per F. Perls è l’antitesi alla libertà di scegliere creativamente le proprie esperienze, seguendo la spontaneità organismica. Di contro, presto il bambino apprende che per essere accettato è necessario seguire indicazioni, valutazioni, giudizi, doveri che gli vengono imposti dall’esterno, stimoli che incorpora fino a diventare parti di sé. Alcuni dei messaggi ricevuti sono necessari alla sopravvivenza, altri invece impediscono la libera espressione individuale. Sia gli uni che gli altri vengono incorporati e formano un sistema interno di regole che guida l’individuo nel mondo. Ne consegue che i modi di pensare, sentire e comportarsi, piuttosto che frutto dell’esperienza naturale, sono risultato di un doverismo coatto. Quella che è stata originariamente una scelta di sopravvivenza, diventa un habitus, una forma automatica di sentire e comportarsi, che porta a rispettare i doveri piuttosto che i reali bisogni.
Il bambino, non ancora capace di autosostegno, si appoggia agli altri e impara a recitare parti più o meno stereotipate per ottenere la guida che gli occorre. Crescendo, la tendenza al doverismo può persistere fino a determinare forme caratteriali che si strutturano proprio sul dovere. La conseguenza è che la persona trascura il proprio potenziale e continua a rispondere a messaggi ricevuti dalle figure significative, non più congruenti con la realtà di oggi (IGAT)
Nell’ambito della psicoterapia della Gestalt è così chiamato l’atteggiamento che considera il dovere prioritario rispetto alle esigenze dell’organismo, ovvero la tendenza, per quanto riguarda le scelte comportamentali, a riferirsi a considerazioni riguardanti il senso del dovere piuttosto che alle vere e proprie esigenze organismiche del momento. Queste ultime sono invece centrali nell’approccio gestaltico: l’essere umano è considerato un organismo alle prese con la sopravvivenza, con tutti i problemi che questo comporta nel rapporto con il suo habitat, che non è solo quello naturale, ma è anche lo specifico contesto umano di cui fa parte. Le necessità del contesto sono spesso diverse e non di rado opposte a quelle dell’organismo: ne deriva per la persona la necessità di adattarsi a esse rinunciando a quelle che spingono dall’interno, più autentiche ma potenzialmente pericolose per l’ordine sociale. Si sviluppa così una personalità ‘di maniera’, che se da una parte permette al soggetto di sopravvivere socialmente senza tante difficoltà, dall’altra lo allontana dal suo autentico vissuto e lo trasforma in qualcuno che è al servizio dell’ordine sociale: questa situazione ha un prezzo altissimo in termini di ‘senso della vita’ e diventa in molti casi causa di sintomatologie varie. Il doverismo risulta così, nell’ottica gestaltica, una delle fonti più diffuse del disagio psichico: la terapia consiste sia nel riprendere contatto con i propri bisogni profondi, cioè con le esigenze contingenti dell’organismo, sia nello sviluppo di modalità comportamentali in grado di manifestarle compiutamente e per quanto possibile soddisfarle. Il lavoro psicologico si orienta nella direzione della creazione di un linguaggio comportamentale più articolato, che possa rispondere meglio alla funzione di raccordo fra il piano intrapsichico e il mondo esterno (IGF)
Meccanismo di evitamento dal contatto attraverso cui l’individuo fa riferimento in maniera quasi esclusiva a regole di comportamento che sono il frutto di introiezioni e che risultano funzionali a soddisfare bisogni che egli riconosce come propri ma che in realtà non sono profondamente autentici (219). Il doverismo come molti meccanismi di evitamento dal contatto è un modo di eludere la propria responsabilità di rimanere in contatto con aspetti autentici della propria identità (96) (SiPGI)
DRAMMA
Condizione pre-teatrale che precede la fase propriamente estetica del teatro. Il dramma è inteso come spazio (Liminale) che congiunge il mondo dato dell’individuo con il potenziale delle risorse intrinseche; determina una fase di passaggio in cui non si appartiene più alla fase già acquisita e non si è ancora a quella a cui si deve giungere. Il Dramma determina una condizione di mediazione artistica nell’agire comunicativo, in cui gli individui, lo spazio che usano e le cose che fanno vengono sperimentate in una realtà fittizia che favorisce il contatto con comportamenti e vissuti altrimenti difficilmente accessibili (8, 26, 141, 370, 97) (ASPIC)
“Far agire, interpretandole, le parti del sé anziché limitarsi a descriverle”. Dramma deriva dalla radice dorica dran. Nella rappresentazione teatrale un mettersi in gioco attraverso il quale si operava la catarsi emozionale dello spettatore nella identificazione proiettiva con gli attori. Una forma letteraria ma anche liturgica che non rimandava ad un “parlare di” , come nell’epica, ma ad un “far accadere” nel qui ed ora un vissuto. Rilevante, in tale prospettiva, la prospettiva dell’agire in terapia, oltre a quella del comprendere e dell’interpretare. La possibilità di offrire un percorso esperienziale che consenta di esplorare un cambiamento di paradigma alternativo ad uno stereotipo e desueto. L’Io non rappresenta una struttura unitaria. Già per S. Freud esiste una dinamica più o meno conflittiva tra una dimensione pulsionale e quella di adattamento sociale. Le parti del Sé vengono rintracciate da C.G. Jung in una molteplicità di complessi che riflettono dimensioni archetipiche sovrapersonali. La psychè, per riprendere J. Hillman, è quindi una dimensione cangiante e molteplice che tende per sua natura a personificare tali entità e farle interagire nel teatro della mente, come avviene appunto nel sogno. Di qui la tecnica junghiana della immaginazione attiva, per la quale la psicodrammatica onirica viene riproposta nell’agire terapeutico, successivamente amplificata dalla tecnica del monodramma introdotta da F. Perls nella Terapia della Gestalt. Fritz Perls che aveva studiato teatro con Max Reinhardt sviluppò la tecnica del monodramma o della sedia vuota in cui il paziente pone in dialogo due o più parti del sé, idee opposte, sentimenti contrastanti, parti diverse di sé presenti nei sogni o crea un dialogo con persone reali presenti nella sua vita. Si produce in tal modo una diretta esperienza del conflitto ed il paziente viene incoraggiato a sperimentare una forma si auto confronto spesso risolutiva dello stesso (8, 129, 144, 215, 226, 388, 393) (CSTG)
DRAMMATIZZAZIONE
Messa nello spazio da parte dell’individuo di una vicenda o situazione di cui è protagonista, che si fonda e si sviluppa su elementi di impasse o conflitto. Durante l’azione si favorisce l’amplificazione e dilatazione verbale, para-verbale e non verbale, coinvolgendo contemporaneamente le funzioni dell’essere corporea, verbale, emozionale e trans personale. Nell’azione drammatica esiste un richiamo al far accadere in termini sincronici ciò che l’individuo ha appreso ad evitare che accada nella realtà. I protagonisti e i co-protagonisti interpretano i comportamenti con scambi e inversioni di ruolo e controfigure aderendo alle modalità e contenuti indicati dal protagonista. La drammatizzazione viene applicata prevalentemente con i gruppi, nel lavoro individuale possono essere utilizzati oggetti che rappresentano le parti coinvolte nell’azione drammatica. Far vivere in terapia un mono-psicodramma per far rivivere al soggetto situazioni passate/presenti/future non solo raccontate ma rappresentandole in modo catartico facilitando la consapevolezza per prendersi cura e soluzionare i problemi relativi. Immaginare attivamente altri scenari con la forza motrice della fantasia per rispondere alle sfide innovative del cambiamento. L’esplorazione e la scoperta di possibilità molteplici apre il sipario sull’utilità applicata di procedure e strategie creative nella facilitazione dei trattamenti psicologici. L’uso delle arti terapie modifica l’assetto emotivo-cognitivo e comportamentale sia negli adulti che negli anziani oltre che bambini e adolescenti migliorando l’insieme della loro comunicazione relazionale (106, 108, 97, 142, 157, 219) (ASPIC)
E’ una tecnica frequentemente utilizzata nel setting psicoterapeutico e consiste nel trasformare i sentimenti e i pensieri nelle loro rappresentazioni. Una delle forme più celebri – esportata anche in altri modelli terapeutici – dell’applicazione di questo metodo è la tecnica della sedia vuota, che ha lo scopo di far contattare al cliente ragioni, pensieri, sentimenti ed emozioni di due parti o istanze in conflitto, con l’obiettivo non solo o non tanto di risolvere il conflitto stesso ma di ‘dialettizzarlo’ ed evitarne la cristallizzazione o la paralisi – dovuta all’identificazione rigida con una sola delle due parti – che è l’aspetto realmente patogeno (IPGE)
ECCITAZIONE
Il termine eccitazione (excitement) indica per Fritz Perls “l’aumentata mobilitazione di energia che ha luogo in occasione di un interesse e di un contatto forti, siano questi erotici, aggressivi, creativi o altro” (219, pg. 402). In particolare, se attenzione ed eccitazione sorgono spontaneamente e “lavorano assieme” (ibidem), si attiva un rapporto fluido di figura/sfondo in cui “il bisogno e l’energia dell’organismo” e “le possibilità probabili dell’ambiente sono incorporati e unificati nella figura” (219, pg. 41). In questo caso inoltre “l’oggetto dell’attenzione si rivela sempre più figura unificata, luminosa e netta che si staglia su uno sfondo sempre più vuoto” e “inconsistente” (219 pg. 328). L’intensificazione dell’energia che consente l’attivazione di una gestalt “buona” e “forte” (ibidem), può realizzarsi dunque solo in presenza di uno sfondo che diviene “progressivamente ..privo di interesse” (ibidem). L’elasticità del processo di gestaltung può essere interrotta per una fissazione su una figura, impedendo l’emergere di nuovi interessi dallo sfondo oppure per “un’ incapacità a svuotare lo sfondo” in quanto “troppo carico” di “elementi di attrazione” (219, pg. 329-330). “L’attitudine a cogliere la realtà emergente, l’elemento che è più carico di significato e di energia in un preciso momento” è dunque ciò che consente a un “individuo sano di concentrare…le sue facoltà di attenzione, di mobilizzare le strategie utili a realizzare…uno scambio vantaggioso di dare-avere ed in definitiva di assorbire gli elementi di cui abbisogna per poi muoversi verso altre realtà che successivamente si saranno caricate di maggiori valenze energetiche” (387, pg.48). Finalità dell’intervento terapeutico è quella di “scoprire quali eccitazioni non si” sia “in grado di accettare” (219, pg. 404) e ripristinare i rapporti dinamici fra figura e sfondo (CSTG)
“L’eccitazione (in inglese Excitement – termine meno forte che in italiano) è un’intensificarsi dell’attività metabolica e l’aumentare dello scambio di energia, le quali cose rappresentano la risposta dell’organismo al verificarsi di situazioni nuove o stimolanti” (219, p. 369).
“[…] è il sentire la formazione della figura/sfondo nelle situazioni di contatto, man mano che la situazione incompiuta tende a completarsi” (219, p. 181). “Il contatto, la formazione del rapporto figura/sfondo, è un intensificarsi dell’eccitazione caratterizzata da una grande ricchezza di sentimenti e interessi. […] I diversi tipi di sentimento – il piacere, per esempio, o le emozioni in genere – indicano l’alterazione del coinvolgimento organico nella situazione reale. Non esiste realtà alcuna che sia neutrale e indifferente. […] In linea di principio, l’interesse e l’eccitazione tipici del processo figura/sfondo, costituiscono una testimonianza immediata del campo organismo/ambiente” (219, p. 44). “L’eccitazione si mantiene e cresce durante l’intera sequenza del contatto. Ma per diverse ragioni, può essere inibita, addirittura bloccata, ed è angoscia. L’angoscia dunque è il risultato dell’interruzione dell’eccitazione della crescita creativa” (280, p. 59). “L’ansia che accompagna l’interruzione di contatto primaria (che, con il ripetersi delle situazioni, diventa abituale) è la conseguenza di un’eccitazione che non ha avuto sufficiente sostegno di ossigeno (respiro adeguato) a livello fisiologico e di risposta ambientale a livello sociale” (342, p. 83). (HCC ITALY)
EGOTISMO
L’egotismo in psicoterapia della Gestalt indica un’interruzione nella fase del contatto finale, una perdita di spontaneità, una fissazione nel proprio Organismo (O), un’ “astrazione del comportamento …dal processo in atto”, un’esclusione e un isolamento del Sé dall’istanze dell’Es e dall’Ambiente circostante (A). Nell’egotismo “il sé ….si sente vuoto, privo sia di bisogni che di interessi” (219, pg. 268). La persona si isola, divenendo “l’unica realtà” (219, pg. 261). L’ambiente viene assunto, controllato, manipolato e fatto proprio cessando di essere fonte di nutrimento. Ne consegue che “l’individuo non cresce né cambia. Così col tempo, dal momento che egli impedisce all’esperienza di essere nuova, si annoia e diviene solitario”. (219, pg. 261-262). Nella sua accezione negativa l’egotismo esprime dunque un atteggiamento cronico e irrigidito di chiusura, un’impermeabilità osmotica a ricevere dal mondo esterno elementi potenzialmente positivi. Allorché una chiusura selettiva sia rivolta invece verso elementi potenzialmente negativi, il blocco e il rifiuto si rivelano auspicabili, nonché funzionali alla difesa, definizione e sviluppo del sé. Si pensi ad esempio alla “capacità aggressiva-competitiva tesa a lottare per il proprio territorio vitale in senso ampio e a difenderlo da possibili invasioni” o agli “atteggiamenti oppositivi tipici della condotta adolescenziale tesa a demarcare i confini del sé e la propria identità sessuale, culturale e sociale..” (387, pg. 91). In tal caso l’egotismo assume una valenza positiva (CSTG)
“L’egotismo (in inglese Egotism) è l’interruzione di contatto che la funzione-io sviluppa nella fase finale, nel momento culminante dell’esperienza di contatto. Accade quando dovrebbe esserci uno scambio tra l’organismo e l’ambiente e tutte le capacità volitive dovrebbero essere rilassate. Invece l’io mantiene il controllo, evitando così di farsi sconvolgere dalla novità ambientale. La persona è consapevole di tutto e spesso ha qualcosa da dire su tutto. […] L’egotismo, allora, ha a che fare con il non lasciarsi andare all’ambiente o con il non affidarsi alla novità vitale contenuta nell’ambiente” (342, p. 86). “Nel senso nevrotico, l’egotismo è un tipo di confluenza con la consapevolezza deliberata e un tentato annientamento dell’elemento incontrollabile e sorprendente. […] Così col tempo, dal momento che egli impedisce all’esperienza di essere nuova, si annoia e diviene solitario” (219, pp. 261-262). Nella recente prospettiva dello sviluppo polifonico dei domini, teorizzata da Margherita Spagnuolo Lobb, la modalità dell’egotismo, “la capacità di essere orgogliosi di essere se stessi” (340, p. 45) è considerata un dominio. “Questa modalità di contatto sta alla base dell’autonomia, della capacità di trovare una strategia nelle situazioni difficili e di offrirsi al mondo con la propria individualità. Si sviluppa nel corso di tutta la vita e il rischio di un confine di contatto desensibilizzato sta nella possibilità che […] la percezione di se stessi di fronte all’ambiente incorra in un sentimento di noia e di vuoto (la figura è una ripetizione compulsiva), cosicché il bisogno di controllarsi prende il sopravvento sulla naturale spontaneità dell’essere” (340, p. 45). “Per evitare l’ansia, l’organismo stabilisce un contatto attraverso questo stile di interruzione della spontaneità: il contatto con l’ambiente avviene ma finisce troppo presto, prima che la novità portata dall’ambiente venga contattata e assimilata” (342 pp. 84-85) (HCC ITALY)
EMPATIA
Con empatia si intende la capacità di comprensione del mondo psichico altrui attraverso la via dell’identificazione. Attenzione, però: ciò non significa compassione o pietismo, o adeguamento passivo e rinunciatario ai problemi e limiti altrui, rinunciando al proprio compito professionale, cioè alla propria identità professionale nei confronti del cliente. Empatia significa sapersi identificare con l’altro, rimanendo contemporaneamente se stessi. La dimensione empatica del rapporto implica un continuo processo di identificazione nell’altro e di disidentificazione dall’altro, tale per cui l’altro viene compreso come persona, ma anche osservato come caso clinico.
Alcune conferme all’importanza dell’empatia sembrano venire dalle neuroscienze, in cui attraverso l’attivazione di alcune aree ci sarebbe una regolazione emotiva.
Quello verso cui dovremmo tendere è la presenza di un professionista empatico che stabilisce un ottimo rapporto di collaborazione con un cliente attivo, sulla base della personalità, della cultura e delle preferenze di questo.
Molte ricerche empiriche sul processo e sul risultato indicano che un rapporto clinico basato sull’attenzione per la relazione e sull’empatia porti a migliori risultati che un lavoro svolto primariamente alla ricerca dell’insight e senza la giusta attenzione alla relazione.
Molti studi si focalizzano sull’empatia (articolata in tre dimensioni: relazione empatica, sintonia comunicativa e empatia personale) come fattore trasversale influente sull’outcome.
Alcuni sottolineano l’importanza dell’empatia culturale, nel lavoro con clienti che appartengono a culture diverse. Essa comporta l’assunzione di una prospettiva che utilizzi una cornice di riferimento culturale come guida per la comprensione del cliente dall’esterno e che riconosca le differenze culturali del sé dall’altro (ASPIC)
Per descrivere l’empatia in una prospettiva gestaltica possiamo riferirci alla definizione di Frank-M. Staemmler, riportata nel 2007 su Studies in Gestalt Therapy nell’articolo dal titolo “On Macaque Monkeys, Players, and Clairvoyants: Some New Ideas for a Gestalt Therapeutic Concept of Empathy”. Egli definisce l’empatia come una relazione incarnata, condivisa, che tiene conto sia delle persone coinvolte, che della relazione che tra esse si crea. Tale condizione di reciprocità include e trascende i singoli individui, fornendo ad entrambi un più ampio e condiviso livello di consapevolezza. Con termini diversi, ma concettualmente simili, Gallese (80) in un’ottica neuro-scientifica individua alla base di una relazione empatica un processo di “simulazione incarnata”, un meccanismo di natura essenzialmente motoria, molto antico dal punto di vista dell’evoluzione umana, caratterizzato da neuroni che si attiverebbero simultaneamente in entrambi i soggetti coinvolti nella relazione e che agirebbero immediatamente prima di ogni elaborazione più prettamente cognitiva. La scoperta che le intenzioni e gli stati emotivi dell’altro sono direttamente compresi, perché condivisi a livello neurale attraverso un sistema di neuroni specchio, conferma un concetto teorico cardine nella psicoterapia della Gestalt, ovvero l’esistenza di una comprensione dell’altro che non è eminentemente cognitiva, ma incarnata, che avviene al “confine di contatto”, luogo sensoriale ed esperienziale in cui “accade” il qui ed ora della relazione. I più recenti risultati proposti dall’Infant Research (358) e dalla ricerca neuro-scientifica, confermano l’idea gestaltica che ogni organismo animale o umano possiede capacità relazionali supportate da una intenzionalità di contatto che si sviluppa sin dai primissimi mesi di vita. Tutto ciò mostra che non può essere concepibile l’esistenza di un individuo/organismo separato dal suo ambiente/contesto, ovvero quanto fuorviante e poco realistico sia prospettare l’esistenza di un io senza una ontologica e strutturante interazione con un noi (HCC ITALY)
A livello clinico empatia significa comprendere la percezione e il vissuto dell’altro (come si evince dalle intuizioni filosofiche di Husserl prima e poi della Stein e da quelle psichiatriche di K. Jaspers), per questo – come afferma Cordignola (282) – ogni terapia deve essere empatica. La grande intuizione di Rogers e della Client Centered Therapy (CCT) è stata sostenere e provare che il paziente migliora e guarisce unicamente con la risposta empatica e congruente, in un clima di accettazione. D’altra parte F. Perls, che lavorava con pazienti prevalentemente dipendenti o confluenti, sosteneva che una frustrazione (non rispondere alle richieste esplicite del paziente in modo che lui impari a ‘pulirsi il naso’ da solo) risulta di grande efficacia clinica per la crescita del paziente. Si tratta – nonostante le apparenze differenti – di due modi diversamente empatici di porsi nei confronti del paziente: nella CCT si valuta la risposta empatica (Perls la chiamava: il ‘feedback empatico’) come curativa, nella GT si sostiene che sottrarsi alla dipendenza del paziente è ciò di cui il paziente ha bisogno. Il terapeuta della Gestalt può usare la risposta empatica come uno dei tanti interventi possibili, ma non può mai rinunciare ad essere empatico, cioè sapere dove si trova il paziente e di cosa ha bisogno. Lo stesso vale per la congruenza che Rogers chiede al terapeuta, che si allinea con l’atteggiamento che in GT viene chiamato ‘il terapeuta come strumento terapeutico’ (219). Le neuroscienze – con i ‘neuroni specchio’ (279) – e l’Infant Research (368, 311) con la necessità di una risposta materna di riconoscimento dei vissuti del bambino – hanno confermato che l’empatia (comprendere il vissuto dell’altro ‘come se’ fosse il proprio) nella clinica non è un optional né tanto meno il metodo che caratterizza un approccio, ma è una qualità costitutiva della sana ed efficace relazione terapeutica (hcc Kairos)
Mentre nell’identificazione si diventa l’altro, che in questo senso viene assimilato a sé stessi in un movimento dove 1+1 dà come somma 1, l’empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro e di sentire allo stesso tempo anche quello che sente lui, per cui mettersi nei panni implica da 1 diventare 2: se questa capacità non esistesse non esisterebbe neanche il teatro. Quando un buon attore impersona una sedia, l’attore sembra miracolosamente una sedia: si mette veramente nei panni del personaggio non quando lo fa diventare simile a sè, ma quando lui diventa come il personaggio e rimanendo anche se stesso diventa in grado di accorgersi di quello che il personaggio sente nel profondo. Perché nella percezione l’altro risulti come individuo bisogna avere visto il mondo con i suoi occhi, bisogna cioè averlo percepito empaticamente. Da questo punto di vista l’empatia è fondamentale per capire qualcosa degli esseri umani, cioè per capire chi è il soggetto che si ha davanti: mettersi nei panni degli altri è in questo senso l’unica possibilità per stare dentro a un contesto vivo (IGF)
“La posizione empatica, che è la base della relazione psicoterapeutica, consiste nel rendersi conto del sentire dell’interlocutore, e allo stesso tempo del proprio, e di cosa si sente per ciò che sente l’interlocutore (30). L’articolazione del sentire richiede esperienza: la psicoterapia a orientamento esperienziale implica un addestramento esperienziale, vale a dire, di auto-conoscenza sul piano emozionale” (236).
L’empatia, come capacità di accorgersi dell’esperienza dell’altro, è fondamentale per l’incontro e non vuol dire soffrire o gioire come l’altro, ma percepirne la sua realtà emotiva nell’esperienza dell’incontro, reso possibile dalla distanza tra le due persone (84, 227, 225).
Mettersi continuamente nei panni del proprio interlocutore e rendersi conto di quello che il cliente sente, senza confondersi con lui, sono requisiti fondamentali per chiunque eserciti nel campo delle professioni d’aiuto (46, 85, 232, 282) (IGP)
Alla luce delle nuove scoperte nell’ambito delle neuroscienze ed in particolare al ruolo e alla funzione dei neuroni specchio, l’empatia può essere considerata a tutti gli effetti un meccanismo di comunicazione degli stati emotivi tra due individui (279). In psicoterapia ha una importanza fondamentale per favorire la sintonizzazione e la comprensione dell’altro. Possiamo parlare di due livelli di condivisione empatica: un primo livello, più superficiale, determina che da parte del terapeuta vi sia la capacità di comprendere, ovvero di riuscire ad immaginare prima, e sperimentare successivamente, che cosa l’altro prova in quel dato momento; un livello più profondo comporta invece che si attivi per il terapeuta una immediata esperienza di partecipazione e sperimentazione del vissuto del paziente. Questo secondo caso ha un impatto ed un effetto molto più potente e diretto nel processo di comunicazione emotiva sebbene la prima modalità risulti più frequente di quest’ultima (154, 281) (SiPGI)
EPOCHÉ
L’Epoché è l’atto di operare una riduzione fenomenologica, è la capacità di eliminare i preconcetti e giudizi che la persona possiede e porta con se, mettere tra parentesi i modelli di spiegazione, i costrutti ipotetici, le teorie e i vari modelli del mondo. Nel momento in cui l’epoché si rende possibile e la sospensione del giudizio si attua, possiamo conoscere la realtà per come essa è, incontrare l’essenza di un fatto, cogliere un fenomeno per come si presenta. L’epoché fa parte del processo di conoscenza, che inizia dall’esperienza sensoriale, dai fatti, dalle nostre percezioni sensoriali della realtà, per arrivare alla coscienza dei dati percepiti, alla capacità di coglierne il significato. È una modalità di presenza pre-categoriale, una sospensione del giudizio mettendo tra parentesi ogni impianto categoriale e un’apertura all’essere (antropologico) affinché mostri il suo significato e la sua direzione soggettiva. Il senso emerge con l’analisi della presenza con una contemplazione. Poter esser-ci tra l’attimo precedente e quello successivo, quando l’Io incontra il Tu in un luogo mediano tra due Io e un noi che consente di essere separati e uniti nell’esperienza esistenziale. Posizionarsi al confine del con-tatto: contenendo e proteggendo l’organismo e ponendolo a contatto con l’ambiente. Il campo intersoggettivo è sempre inedito ed è costituito dalle reciprocità che sprigiona nuove energie per il cambiamento che emerge “tra” l’intrapsichico e l’interpersonale. L’epoché del vuoto fertile predispone a stare in un contesto condiviso aperto alla novità dell’esperienza umana senza inglobare l’alterità (92, 219) (ASPIC)
Anche se Perls si è dichiarato gestaltista e non fenomenologo, il metodo che l’approccio gestaltico utilizza è pienamente congruo alla fenomenologia, nel rispetto della dignità del fenomeno, che appunto non richiede interpretazione concettuale, e nel riportare la conoscenza a un fatto corporeo, nel senso emozionale e sensoriale: cioè nella logica della epoché. La fenomenologia con Husserl introduce un concetto che è in realtà una pratica, l’epoché: il soggetto percipiente, che tradizionalmente è considerato neutro e esterno all’operazione, qui diventa teatro di avvenimenti interni, il cui esito permette o meno l’avvenire della percezione. L’epoché è sospensione del giudizio (del pensiero): se la persona riesce a sospenderlo, la percezione, o piuttosto quella parte della percezione che è “fenomeno secondario”, come lo chiama Brentano, si manifesta, in caso contrario no. L’epoché consente la percezione pura, senza riserve mentali: la percezione istintiva del mondo, come ce l’avrebbe un animale; non è solo un’operazione meccanica, che si limita a ricalcare come un registratore quello che arriva ai sensi dal mondo esterno, ma lascia anche che si formi intorno al ricalco l’alone di associazioni uniche e irripetibili prodotte dall’attività analogica della mente. E’ interessante come questo non sia sostanzialmente diverso dall’antica pratica del vipassana, di tradizione indo-buddista: osservare se stessi, quello che accade dentro di noi, è il nucleo di questa pratica e richiede lo stesso tipo di atteggiamento. Si tratta di accorgersi di avvenimenti che per lo più non hanno nome proprio, e che sono evocabili solo attraverso metafore: sento come se…ecc. Le metafore si costruiscono con le immagini che arrivano per via associativa. Già qui c’è una forte vicinanza fra la fenomenologia dell’epoché e il vipassana: però il punto fondamentale di convergenza è la visione olistica (IGF)
Il sostantivo epoché dal greco epéchein, indica nello scetticismo antico, la sospensione del giudizio, un atteggiamento conoscitivo che utilizza il dubbio come strumento che arresta la pretesa di verità a credenze non fondate razionalmente. Il termine epoché ritorna nella fenomenologia di Edmund Husserl diventando epoché fenomenologica nel senso di modificazione di coscienza nella sospensione generale dell’atteggiamento naturale in vista dell’atteggiamento riflessivo di intuizione dei vissuti intenzionali (134). L’epoché fenomenologica è la modificazione esperienziale che avviene con la «messa tra parentesi», la «messa fuori circuito» del fenomenologo di ogni conoscenza pregressa scientifica e pre-scientifica, in quanto ambiti di giudizi riferiti al mondo e che inquinano la visione diretta dei vissuti coscienziali. Per Husserl i vissuti intenzionali non si mostrano senza l’uso della l’epoché fenomenologica, e senza la riflessione. L’atteggiamento naturale dell’uomo è quello preriflessivo in cui è posta la realtà del mondo esterno come esistente. Esercitando l’epoché fenomenologica i vissuti intenzionali appaiono nella progressiva disattivazione della tesi generale dell’atteggiamento naturale. La tesi, che predomina la vita, è un giudizio implicito sull’essere del mondo: un giudizio immediato di credenza della realtà spazio-temporale del mondo esterno, che l’epoché fenomenologica interrompe alla sua radice, sospendendola (137). Con l’epoché fenomenologica non si attua la tesi di giudizio sull’essere reale del mondo esterno, non se ne fa più uso, e non la si fa più agire durante l’esperienza fenomenologica. Ciò non vuol dire negare l’esistenza del mondo, ma soltanto esercitare l’ epoché fenomenologica che “mette tra parantesi”, modifica, l’implicito che domina la nostra percezione naturale del mondo, per riflettere sui vissuti che lo intenzionano come orizzonte dei contenuti di coscienza (133) (IGP)
Capacità di sospendere ogni speculazione sulla verità o falsità di una qualsiasi interpretazione della realtà. Al terapeuta non interessa se il cliente racconta la verità sulla sua storia bensì il significato che egli attribuisce a ciò che racconta. Pertanto, il compito terapeutico è, almeno parzialmente, ermeneutico (IPGE)
ESPERIENZA
Memoria esperienziale – Nell’approccio esperienziale, l’espressione del bisogno consente di affinare e realizzare l’esperienza soggettiva. Le nuove immagini del Sé, percepite dalla coscienza, si accordano nella messa in atto. L’espressione della propria soggettività libera il cliente da inibizioni, stereotipi e limiti sociali.
La possibilità di “divenire ciò che si è”, in un clima di accoglienza e di considerazione positiva, legittima emozioni e sentimenti facilitando l’esperienza organismica e di contatto tra Sé e l’ambiente. La processualità di nuove conoscenze acquisite a livello somatico e corporeo rimangono impresse nella memoria cellulare facilitando il processo di integrazione delle dimensioni dell’esistenza umana, tra corpo, mente, spirito (86, 375, 220) (ASPIC)
Fase conclusiva del processo conoscitivo individuale. Il soggetto vive, analizza, elabora, si sperimenta e infine metabolizza con tutto se stesso, un evento e le emozioni ad esso legate (25, 27, 61, 137) (CSP/IGA)
Secondo l’approccio fenomenologico esistenziale (vedi Fenomenologia), il fenomeno nel suo doppio aspetto, quello primario e quello secondario, è considerato la manifestazione della realtà, quindi in PTG per esperienza diretta si intende specificatamente l’esperienza fenomenica, cioè quello che si sente sperimentando simultaneamente mondo interno e mondo esterno senza passare da rappresentazioni astratte che sarebbero un costrutto mentale: questo, stando nel mezzo fra percipiente e percepito, li separerebbe invece che unirli. Rendere diretta l’esperienza implica che una persona estenda l’attenzione dal fenomeno primario, vale a dire il riconoscimento del mondo fuori di sé, al fenomeno secondario, vale a dire il riconoscimento della propria reazione interna davanti al mondo esterno. Si tratta di due aspetti contemporanei, che per coesistere nella percezione richiedono un’attenzione molto differenziata, la quale non concede spazio a riduzionismi semplificanti: esperire il mondo senza riconoscere la propria reazione, infatti, produce uno stato di disinteresse cronico come nella depressione, mentre esperire le proprie reazioni senza riconoscerne il supporto esterno produce uno stato allucinatorio, come succede in varie patologie. In una prospettiva olistica dove l’insieme non è identico alla somma delle parti l’esperienza compone un insieme unico e irripetibile nella sua specificità, un vissuto che, pur sottendendo un evento analizzabile, lo trascende in maniera imprevedibile: ogni esperienza è un intero che va considerato come tale e che può essere gestito ma non analizzato, in quanto il ridurlo alle sue componenti ne annullerebbe la specificità. Per la psicoterapia della Gestalt il problema consiste nel come gestire l’esperienza, e per questo è importante tenere in considerazione la funzione biologica delle emozioni, che si considerano qui come organi psichici deputati a espletare attività per la sopravvivenza e l’autorealizzazione (IGF)
Processo che l’individuo vive nella relazione con se stesso e con il mondo e si può suddividere in 5 livelli differenti. I livelli dell’esperienza rappresentano i modi possibili attraverso i quali la persona entra in relazione con se stesso, con l’altro o con l’ambiente. La Gestalt psicosociale sottolinea che l’attenzione del terapeuta va posta sull’esperienza presente e fenomenologica. L’attenzione all’esperienza presente induce a concentrarsi sul movimento che si realizza sia al proprio interno (identità) sia nel rapporto con l’altro (relazione). Il cambiamento di prospettiva – rappresentato dal passaggio dal qui ed ora, proprio della psicoterapia della Gestalt classica, alla concentrazione introdotta da Polster (227) – spinge a porre attenzione alle “sequenze serrate” (227), che catturano nel loro incessante processo ciò che sta emergendo (una sensazione, una emozione, un ricordo..). La caratteristica delle sequenze serrate risiede nella loro successione: esse si muovono una dopo l’altra (momento dopo momento), creano una nuova configurazione della storia della persona (evento dopo evento) e della relazione (persona a persona), lasciano emergere le parti dell’identità in modo integrato anziché polare ( connessione da self a self). I livelli dell’esperienza inizialmente erano: il livello cognitivo-verbale, il livello Immaginativo, il livello emotivo, il livello sensoriale e il livello corporeo (188, 189). Nel 2006, ad essi si è aggiunto il livello eroico (188). Nel corso di questi anni, grazie alle innovazioni introdotte nella Gestalt psicosociale, è stato necessario proporre una lettura aggiornata sui Livelli dell’esperienza che diventano una chiave di accesso per entrare costantemente e continuamente in relazione. Definirli “livelli” non vuole intendere che tra di essi sussista una maggiore o minore rilevanza, ma che ognuno di noi, in base a fattori personali, relazionali e sociali, li attiva in modo funzionale o disfunzionale. Sono esperienziali, compresenti, in connessione. Ènel flusso dell’esperienza e nella fiducia di ciò che accade che i livelli emergono (SIG)
FANTASIE
La longa manus dell’azione è la fantasia: molte esperienze che non è augurabile fare in pratica si posso fare tranquillamente in fantasia, sperimentando così le conseguenze delle proprie eventuali scelte prima di metterle in atto e verificando i possibili risultati in tempo utile per fare cambiamenti. Le fantasie anche guidate sono uno strumento molto utile nel processo terapeutico, strumento che agevola la possibilità di prendere direzioni rischiose quando sono necessarie (IGF)
Nella psicoterapia della gestalt le fantasie hanno il vantaggio di superare i meccanismi della razionalizzazione e di mettere l’individuo davanti alla percezione di sé e del proprio vissuto in modo simbolico e più diretto. La fantasia e la psicoterapia sono strettamente collegate in una relazione che rende concreto emotivamente, esprimibile e gestibile l’immaginario (85).
La fantasia è un’operazione volontaria (un lavoro che la persona compie). L’utilizzo delle fantasie (anche guidate) può offrire molti insight e sviluppare nuove consapevolezze. La fantasia infonde forza mediante l’intensificazione dell’esperienza e aiuta l’individuo a prendere e sperimentare le conseguenze delle proprie eventuali scelte, prima di metterle in atto (203, 236, 361).
Essa può essere utilizzata per entrare in contatto con sentimenti difficili e a cui si oppone resistenza oppure con persone o con situazioni non concluse o non più disponibili, perché appartenenti al passato. Uno strumento utile al terapeuta è appunto la cosiddetta “fantasia guidata”; strumento utile per facilitare al paziente l’esplorazione del suo vissuto immaginario e rendendo così possibile l’integrazione dei contenuti esistenziali (85) (IGP)
FEEDBACK
Il Feedback (Feed: nutrire, alimentare… Back: ritorno) è un ritorno (retroazione) di informazione ad un centro emittente. Esso serve ad informare la sorgente di un messaggio dell’effetto prodotto sul destinatario. E’ importante monitorare se stessi continuamente, cogliendo i feedback dell’altro se non si vuole solamente ‘parlarsi addosso’. La percezione della reazione prodotta in altri da un proprio comportamento può essere utile ad ampliare la consapevolezza e a rendere un nostro agito futuro più adeguato, appropriato o funzionale alle nostre necessità ed all’ambiente circostante. In questo modo, l’effetto delle conseguenze può alterare o rafforzare un comportamento futuro. È un meccanismo di aggiustamento naturale esiste anche nei sistemi biologici: è il segnale con cui un organo periferico risponde all’organo centrale che stimola, modificando l’azione e provocando un autoregolazione del sistema. Nella terapia individuale o di gruppo, il Feedback assume rilevanza e grande utilità sia per chi lo effettua sia per chi lo riceve. Come si esprime un Feedback Fenomenologico. Modalità (esempio): Mentre lavoravi… HO VISTO (mani chiuse, mimica…) [VEDERE]; HO ASCOLTATO (che dicevi, citavi…) [UDIRE]; HO IMMAGINATO (che eri arrabbiato…) [RAPPRESENTAZIONI MENTALI]; HO SENTITO (in me calore, tensioni…) [SENSAZIONI CORPOREE]. Ora, adesso… TI VEDO (che hai una postura…); IMMAGINO (che tu sia soddisfatto…); PENSO (che tu sia ancora un po’ irritato…) e SENTO (il cuore che mi batte forte…). Con il FB si comunica al cliente, che si trova in una posizione delicata e sensibile, ciò che abbiamo visto ed ascoltato (osservazioni ‘oggettive’); ciò che immaginiamo, pensiamo, sentiamo, prendendoci la responsabilità di ciò che è nostro ed è stato suscitato dal lavoro del cliente. E’ un modo rispettoso e corretto per restituire, in base a ciò che si è visto e ascoltato (mimica, postura, prossemica, contenuto del discorso), un’informazione filtrata dal proprio vissuto personale presente e passato. Un professionista che offra feedback in una prospettiva diversa da quella dei clienti, può renderli più capaci di sviluppare un migliore livello di consapevolezza e di comprensione (92, 94, 98) (ASPIC)
Oltre al feedback del terapeuta al paziente è molto importante richiedere anche feedback al paziente stesso su come sta procedendo il lavoro terapeutico, la seduta… Il destinatario finale dell’intervento terapeutico è il paziente; è lui a dover dire se il trattamento stia avendo dei risvolti positivi sul suo benessere o meno. Tutto questo ben si innesta sul tema del ‘dialogismo’ come funzione di ricerca del vero che nasce dal confronto di più prospettive anziché d un unico enunciato per quanto autorevole. Un tema che sottende il ‘dialogo platonico’ (92, 94, 98) (CSTG)
FENOMENOLOGIA
La fenomenologia ricerca la comprensione del fenomeno, non la spiegazione. Si basa sull’impiego della descrizione, narrazione, ascolto, silenzio, intuizione, comprensione empatica, interpretazione interattiva. Comprendere significa ‘partecipare’ al fenomeno, all’altro, fino a che esso non ceda, non comunichi la propria essenza, accostandoci, sgombri da qualsiasi interpretazione aprioristica, in modo da osservarlo non secondo il nostro punto di vista, ma secondo il suo punto di vista. Si tratta di osservare i fenomeni umani direttamente, senza strutture teoriche (necessariamente riduttive) prestabilite in cui, successivamente, inserire l’individuo. Si rifiuta la riduzione dello psichico a parametri naturalistico-oggettivi, sia declinati in termini biologici, che psicologici o sociologici. L’intento antiriduzionistico della fenomenologia sta nel tentativo di cogliere e descrivere gli eventi psicopatologici nel loro darsi immediato, nell’incessante divenire dei vissuti. Si sospende così la questione psicofisica e quella della causalità degli accadimenti psichici. Il sentire non è verificabile, non è giusto o sbagliato: il paziente può solo imparare a riconoscerlo meglio e a gestirlo in modo più salutare. L’approccio fenomenologico. Se la comunicazione è profonda e autentica, il cliente può ricostruire, nella nuova realtà dello spazio d’incontro, il suo rapporto con se stesso. L’esperienza dell’incontro mette in discussione l’identità di ognuno dei due partecipanti; il fattore salutogenetico fondamentale è la possibilità di un riconoscimento reciproco nella relazione. Esso è sempre attuale e irripetibile e ciò implica una diversa accezione della teoria, che non può essere data una volta per tutte, ma si costruisce e si modifica nell’incontro dialettico. L’osservatore pone il mondo tra parentesi (epoché), rinunciando non solo nella sua mente a ogni giudizio di valore riguardo al fenomeno, ma anche a qualsiasi affermazione riguardante la causa e lo sfondo di esso e cerca persino di rinunciare alla distinzione tra soggetto ed oggetto (3, 9, 29, 41, 59, 79, 92, 98, 173, 373) (ASPIC)
L’approccio gestaltico non propone un sistema di credenze, quanto piuttosto una metodologia di indagine nella conoscenza dell’uomo. In una realtà irriducibile ad operazioni di elementare obiettivazione, si distinguono le scienze dell’uomo (Geistwissenschaften) da quelle che studiano gli oggetti inanimati (Naturwissenschaften).
Di fronte all’impossibilità di spiegare (erklären) l’uomo e i suoi accadimenti, è più realistico tentare di immedesimarsi nel suo modo-di-essere-nel-mondo (da-sein) attraverso un’attitudine partecipativa, priva di preconcetti che consenta di comprendere (verstehen), o quanto meno di avvicinarsi ad un fenomeno mai riconducibile a schemi rigorosamente generalizzabili. Si tratta, quindi, di avvicinarsi alla particolare Weltanschauung, alla visione del mondo della persona a cui ci accostiamo, attraverso le sue manifestazioni (parole, gesti, comportamenti) e di favorire i suoi processi di sviluppo, anziché sovrapporre i nostri attraverso tecniche direttive o manipolative. Diventa allora fondamentale sviluppare l’attitudine a cogliere i fenomeni, e a farlo affinando le proprie capacità percettive e di ascolto, come pure l’abilità ad aggregare i dati raccolti in insiemi significativi che corrispondano il più possibile alle rappresentazioni dell’interlocutore.
Secondo Husserl «Si tratta di ritornare al discorso sulle cose, alle cose stesse, tali e quali appaiono a livello di fatti vissuti, anteriormente ad ogni elaborazione concettuale deformante» (da S. Ginger, 2005, p. 132). Al di là di interpretazioni riduttive per le quali il fenomeno è “ciò che appare immediatamente” o “ciò che appare ovvio”, Perls condivide con Husserl il convincimento per cui “l’essenza dell’essere è di svelarsi, manifestarsi, di apparire, di essere fenomeno” (85, 387) (CSTG)
“Il concetto husserliano di intenzionalità e di mondanità dell’io (quindi incarnato e indissolubile dal mondo) è il terreno epistemologico attraverso cui il soggetto diventa costitutivamente relazionale e fonda una concezione inedita del sé come funzione del campo organismo-ambiente. La separazione soggetto/oggetto diventa una dicotomia secondaria rispetto a una realtà sottostante che è il ‘mondo-della-vita’ percepibile attraverso il corpo vissuto. L’interesse del terapeuta è teso a comprendere i vissuti del paziente come essi si danno all’ascolto, secondo la lezione di Jaspers a cui si aggiunge l’indispensabile dimensione relazionale perché la condizione dell’uomo è costitutivamente l’‘esser-ci-con’. Il senso dei vissuti va reperito in questa dimensione, luogo di cura per il disagio che altro non è se non appello alla relazione stessa. Il terapeuta torna così alle heideggeriane ‘cose stesse’ e all’interesse per l’esistente quale emerge nella situazione presente, effettuando dunque un altro salto epistemologico: il passaggio da un modello estrinseco di salute a una valutazione estetica che coglie la bellezza emergente dell’incontro” (344, pp. 292-293; 338, pp. 127-128). Per ‘Metodo fenomenologico’ si intende il “Processo che, attraverso l’epochè (astensione dal giudizio), consente di cogliere l’essenza dei fenomeni. Essa non coincide con l’introspezione (basata su una ingenua separazione fra io e mondo), ma è un modo di re-imparare a vedere il mondo, una ritrovata capacità di provare stupore di fronte al mondo. L’essenza del metodo gestaltico è sostenere nell’incontro terapeutico l’emergere di una figura co-creata a partire dal «mondo-vissuto». In psicoterapia della Gestalt, il terapeuta all’inizio della seduta si focalizza sull’«es della situazione» (ovvero la capacità di stare in contatto attraverso i processi corporei impliciti, non verbali e non razionali), tollerando il movimento caotico al confine e sostenendo nel paziente l’incontro con la novità emergente. La presenza così intesa diventa lo strumento terapeutico e l’esperienza vissuta il nutrimento relazionale che non necessita di interpretazione, ma di consapevolezza” (347, pp. 402-403; 338, pp. 129-130). (HCC ITALY)
VOCI (Fenomenologia e Metodo fenomenologico) TRATTE, PER GENTILE CONCESSIONE DEI CURATORI, DA: GIORGIO NARDONE E ALESSANDRO SALVINI (A CURA DI) (2013), DIZIONARIO INTERNAZIONALE DI PSICOTERAPIA, MILANO: GARZANTI EDITORE
La Fenomenologia rappresenta uno dei bacini di coltura fondamentali per la Gestalt Therapy (GT), che si distingue però dagli altri approcci ‘umanistici’ per il suo intimo, contemporaneo rapporto con la psicoanalisi freudiana e postfreudiana. L’esistenzialismo heideggeriano e soprattutto l’ermeneutica gadameriana – con i quali la GT è in stretto contatto – devono infatti essere considerati quali propaggini del grande edificio fenomenologico fondato in origine da Edmund Husserl (133,134). Da un punto di vista culturale, di squisita matrice fenomenologica è il concetto chiave di campo Organismo/Ambiente, cuore pulsante della teoria generale della realtà formulata da Goodman in Theory and Practice of Gestalt Therapy. Organismo e Ambiente devono concepirsi in un rapporto di ineliminabile reciprocità, così come inscindibili sono il Soggetto e l’Oggetto nella prima versione della fenomenologia husserliana, quella consegnata ai due volumi delle Logische Untersuchungen (135). Da un punto di vista clinico, il primato dei vissuti nel setting, e quindi il rilievo di quel che il paziente sente e dice consapevolmente durante la seduta, rappresenta un chiaro portato della demolizione husserliana di una definizione del reale che non parta dalla coscienza e dall’esperienza che essa fa del mondo, al di fuori della quale non si dà alcuna apprensione oggettiva dell’essere. D’altronde, l’atteggiamento a cui è chiamato il terapeuta gestaltista di fronte al paziente è strettamente connesso con il concetto husserliano di epoché: si tratta di un’accoglienza della assoluta specificità dell’altro, del suo modo di essere nel mondo, che richiede una messa tra parentesi di precomprensioni volgari, di schemi scientifici precostituiti, di categorie diagnostiche previe (137). Solo la consegna senza remore alla comune umanità consentirà al terapeuta di affrontare la relazione all’interno del setting come un’autentica avventura ermeneutica (hcc Kairos)
Fenomenologia è teoria della conoscenza attraverso il sentire, a differenza delle epistemologie, che sono teorie della conoscenza attraverso teorie. Riguardo al sentire è fondamentale un’affermazione di Brentano sul doppio processo costitutivo della percezione: c’è una percezione primaria e una percezione secondaria. La percezione primaria è l’accorgersi dell’oggetto fisico che sta fuori, la percezione secondaria è il fenomeno psichico, cioè l’effetto che avviene dentro la psiche in concomitanza con l’oggetto percepito fuori. Si vede qualcosa: in riferimento al mondo fuori, si dice che è grande, è piccolo, è bianco, è nero; in riferimento al mondo interno, piace o non piace con riferimento alla qualità. Questi temi vengono trattati anche dall’etologia; nella teoria degli istinti di K. Lorenz un istinto si considera composto di tre parti: un elemento attivante esterno, variabile ma riconoscibile in base a un precursore fissato geneticamente; un meccanismo scatenante innato, fisso; un movimento scatenato, che negli organismi geneticamente predisposti all’apprendimento è fisso nello scopo ma variabile nella modalità, la quale dipende appunto da quello che l’organismo in questione ha contingentemente appreso nello specifico dell’ambiente in cui vive. In questa teoria appare chiaramente come il meccanismo scatenante innato abbia bisogno di un seppur minimo apporto esterno a cui riferirsi (riferimento intenzionale), in primo luogo riconoscendolo (fenomeno primario) e, in secondo luogo, scatenando una reazione emozionale e motoria dell’organismo (fenomeno secondario) che, per quanto soggettiva, è quella che fa da ponte fra l’organismo e il suo ambiente e che realizza la qualità della sua vita. L’oggetto fisico è misurabile quantitativamente, il fenomeno psichico qualitativamente. Se la percezione è fenomeno fisico e insieme fenomeno psichico, è quantità e qualità: l’osservazione è naturalmente quantitativa e qualitativa (IGF)
La f. è la scienza dei fenomeni puri fondata dal filosofo Edmund Husserl. Per il padre della f. la riflessione filosofica non si lega all’autoreferenzialità del cogito di Cartesio e all’autosufficienza dell’«io penso» dei moderni, ma il pensiero si trasforma in cogitor, in “essere pensato” che si dona con l’esercizio della Intentionalität (1). Husserl, sviluppando la psicologia descrittiva di Franz Brentano dell’intenzionalità dello psichico puro e del vissuto di coscienza come riferimento intenzionale all’oggetto intenzionato (135), supera il quesito epistemologico sulla “realtà del mondo esterno” ancorato al rapporto tra le due res: il soggetto da un lato e l’oggetto esterno dall’altro, e rovescia il problema a favore del contatto immediato, dell’intuizione diretta con il mondo andando «alle cose stesse!». Infatti, di fronte alla realtà del mondo esterno che si costituisce nei dati sensibili ottici, acustici, tattili, il realista dice: «come esco da questa “sfera soggettiva” dei dati sensoriali in direzione della conoscenza del mondo?»; mentre l’idealista: «come pervengo, restando nella “sfera soggettiva” ad una conoscenza obiettiva?»(127). Husserl sospende queste posizioni per un’analisi del flusso di coscienza come correlazione intenzionale Io-mondo. Il «fenomeno» è manifestazione della cosa stessa e la fenomenologia è la descrizione di tutto ciò che appare e la maniera del suo apparire in quanto correlazione intenzionale soggetto-oggetto. Martin Heidegger sposta il concetto di fenomeno e della correlazione intenzionale sul piano esistenziale dell’Esserci in quanto essere-nel-mondo. L’analitica dell’Esserci porta l’ermeneutica dell’esistenza a mostrarsi come comprensione del senso dell’essere. Per cui fenomenologia è il portare alla luce le possibilità di auto-interpretazione dell’esistenza da parte dell’Esserci e del senso del proprio essere sull’originaria apertura alla comprensione del senso dell’essere in quanto tale (128) (IGP)
La fenomenologia nasce come metodo di indagine obiettiva della realtà, allo scopo di costruire una conoscenza che colga le caratteristiche invarianti dei fenomeni studiati. Essa implica una conoscenza sovra sensoriale o categoriale che colga l’essenza del fenomeno o l’ordine preciso che lo sostiene. L’approccio fenomenologico esistenziale specifico della psicoterapia della Gestalt è un’integrazione tra la fenomenologia esistenziale di Edmund Husserl e la fenomenologia della Psicologia della Gestalt. Husserl (134, Vol. I, pg 1-323) sviluppò il metodo fenomenologico come un modo per separare le invarianti dell’esperienza dagli elementi interpretativi che vi si sovrappongono (357, pg 7-38). Tutti i fenomeni mostrano delle regolarità che appaiono in combinazioni e sequenze ripetute. Tali regolarità possono essere descritte e modellizzate al fine di fornirne una spiegazione e permetterne il controllo e la predizione. La conoscenza scientifica non è altro che la costruzione di modelli che tentano di spiegare le regolarità dei fenomeni. È, inoltre, impossibile trascendere il nostro modo di conoscere e comparare ciò che appare (fenomeni) con ciò che è, ovvero l’essenza degli oggetti (noumeni) (IPGE)
FIGURA/SFONDO
E’ un concetto basilare nella psicologia della Gestalt: E’ quel processo dinamico attraverso il quale, differenziandole dallo sfondo, un individuo dà forma alle proprie sensazioni emergenti, organizzate secondo la gerarchia di priorità dei propri bisogni (151, 153, 61, 219, 120) (CSP/IGA)
“Nell’ambito della psicoterapia della Gestalt, come anche in psicologia della Gestalt, il flessibile emergere dell’interesse dalle possibilità percettive dell’esperienza. Così come la psicologia della Gestalt introdusse una concezione rivoluzionaria della percezione, che da passiva acquisizione di stimoli slegati divenne processo attivo e creativo operato dal soggetto, la psicoterapia della Gestalt introdusse una prospettiva rivoluzionaria sulla dinamica delle relazioni umane, non più determinata da fattori inconsci, ma considerata come realtà fenomenica esperita nel qui-e-ora e del contatto organismo/ambiente, regolata dalla dinamica figura/sfondo. In psicoterapia della Gestalt, la formazione di figura è un adattamento creativo, basato sul principio dell’autoregolazione della relazione: la figura, che chiamiamo Gestalt, emerge dallo sfondo esperienziale come migliore organizzazione possibile di energie percepite in sé e nell’ambiente e delle intenzionalità di contatto; la figura è la co-creazione del confine di contatto, luogo dell’esperienza condivisa in cui il sé dei soggetti coinvolti prende forma differenziandosi e acquisendo la novità. La formazione di figura è sostenuta da una forza vitale che consente di destrutturare e ristrutturare la realtà in maniera assolutamente creativa e unica. La psicoterapia della Gestalt considera due tipi di sfondo; uno è lo sfondo dei contatti scontati, costituito dagli apprendimenti psico-corporei che concorrono al senso di sicurezza; questo sistema di sostegno è stato descritto da Perls come ciò che «proviene dalla fisiologia primaria libera che implica l’assimilazione e l’integrazione dell’esperienza». L’altro tipo di sfondo è quello dell’esperienza diretta, che dà risalto alla figura e le consente di emergere con brillantezza e chiarezza. Quando si è di fronte a una novità del campo, solo una parte dello sfondo si mobilita, quella cioè necessaria alla creazione della nuova figura” (345 pp. 294-295; 338, pp. 128-129; 132-133). (HCC ITALY)
VOCE (Figura/Sfondo, Dinamica) TRATTA, PER GENTILE CONCESSIONE DEI CURATORI, DA: GIORGIO NARDONE E ALESSANDRO SALVINI (A CURA DI) (2013), DIZIONARIO INTERNAZIONALE DI PSICOTERAPIA, MILANO: GARZANTI EDITORE
Il formarsi di una figura chiara e distinta su uno sfondo è uno dei modi in cui il processo percettivo funziona secondo la psicologia della Gestalt. E uno degli strumenti che ci permettono di filtrare l’infinita gamma di percezioni a cui siamo sottoposti, selezionandone alcune e organizzando i dati in un oggetto (intenzionato) utile a soddisfare un bisogno (intenzionante) emergente, tralasciandone altri. Il motore che illumina e contribuisce a formare un oggetto contro uno sfondo, è il desiderio dietro cui c’è un bisogno motivato da istanze vitali. I bisogni sono legati alla sopravvivenza e alle sue implicazioni: la percezione è così al servizio della sopravvivenza, ed è anche alla base della conoscenza. Le fasi del Ciclo, o Spirale del contatto (vedi) descrivono il processo per cui l’oggetto in figura, illuminato dal bisogno e dalla sua carica, una volta intrapresa l’azione inerente al possibile soddisfacimento del bisogno e al ritorno a uno stato energetico più basso, perde la sua luminosità e recede nello sfondo, fatto di mille altri possibili stimoli. Un altro desiderio può ‘intenzionare’ la percezione per individuare un nuovo oggetto in un fluire continuo che è sinonimo di una buona relazione interno/esterno, fra il soggetto e il suo ambiente, e fra le diverse istanze desideranti che abitano l’essere umano. Gli ostacoli a tale fluidità sono possibili e forse anche inevitabili: vengono chiamate resistenze o interruzioni del ciclo del contatto (vedi) e possono portare a Gestalt fisse e mai concluse, a comportamenti ripetitivi e insoddisfacenti, a limitazioni e impoverimenti di conoscenze e di esperienze. La fluidità del processo figura/sfondo è uno degli obbiettivi della PTG e indica una metodologia per cui diverse parti interne con diversi desideri vengono portati all’attenzione e alla coscienza, dialogano fra loro e di volta in volta illuminano diversi oggetti entrando in relazione col mondo esterno in maniera variata, aperta, ricca (IGF)
FOC (FOBIE-OSSESSIONI-COMPULSIONI)
È un disturbo di ansia di evitamento derivante dallo spostamento di pulsioni represse conflittuali verso una situazione meno ansiogena. Inoltre rappresenta la risposta inadatta allo stimolo temuto. In Gestalt è considerato un’interruzione durante l’avviamento verso il con-tatto pieno mediante il meccanismo della deflessione. Il soggetto deflette proteggendosi, desensibilizzandosi e deprimendosi. In pratica si aiuta il paziente a entrare nei problemi, per poi uscirne. La persona ha difficoltà a controllare la preoccupazione, che deve essere a un livello tale da ostacolarne il funzionamento. Aspetti pluralistici del sé intrapsichico, interpersonale, biologico e culturale, consentono un approccio plurimo alla complessità dei sintomi spiacevoli di origine ansiogena (98, 382) (ASPIC)
La Gestalt Therapy legge i FOC come stili relazionali disfunzionali che rivelano una seria difficoltà dell’Organismo (O.) ad entrare in contatto nutriente con l’Ambiente (A.), nonostante ne abbia desiderio e intenzionalità (219). Fobie, ossessioni, compulsioni sono disturbi che rivelano interruzioni del ciclo di contatto nel momento specifico in cui l’O., dopo essersi orientato verso la nuova direzione, inizia ad avvertire eccitazione ed energia per muoversi verso l’A. (fase dell’azione/manipolazione) (312). Il paziente con stile relazionale fobico si sente costretto ad evitare il contatto con determinati oggetti (animati/inanimati) o con precise condizioni ambientali (spazi ampi o spazi ristretti) per non avvertire sensazioni sgradevoli e insopportabili. Tali sensazioni sono percepite incombenti nella loro fissità, per cui il soggetto ha bisogno di controllare minuziosamente ogni ambiente nuovo per assicurarsi che nel suo campo percettivo non sia presente l’oggetto fobico. Questo terrore è stato appreso in una relazione nella quale il paziente non è stato sostenuto nell’emergere dell’eccitazione del suo corpo. Il paziente con stile relazionale ossessivo, in maniera disfunzionale e dolorosa, si prende cura di sé attraverso i pensieri ossessivi. Questi, pur avendo forme diverse, hanno come caratteristica comune l’indecisione, che esprime il dramma interiore-relazionale: “Mi lascio o non mi lascio andare alle emozioni nella relazione?”. Tale indecisione ripropone il processo dell’O. che si apre e si chiude rispetto all’emozione che lo attrae e lo terrorizza, in un’altalena asfissiante, in cui l’energia non si placa, poiché non raggiunge lo scopo. Il paziente con stile relazionale compulsivo si sente costretto a compiere azioni compulsive (contenitive ed espulsive), sotto la spinta di un’irresistibile coazione interna per placare l’eccessiva tensione. Pensa che se non compie quella determinata azione precipiterà nel terrore e potrà accadere qualcosa di terribile (hcc Kairos)
FOCALIZZAZIONE
Si parte dal presupposto che l’individuo, in quanto essere unico e irripetibile, sia il focus del proprio sistema di vita, attorno al quale gira il mondo esterno. Quest’ultimo produce stimoli a cui l’individuo reagisce a seconda del proprio percepito.
Il terapeuta agevola la focalizzazione di tale processo attraverso la confrontazione (mettendo in evidenza ciò che probabilmente evita) e la chiarificazione (con la riformulazione) portando il paziente/cliente alla consapevolezza di ciò che si sta verificando nella relazione tra i due.
Questo processo relazionale può favorire l’insight; la persona acquisisce la capacità di integrare le dimensioni corporea, emozionale e cognitiva, trovando un equilibrio ottimale per se stesso nel qui ed ora (15, 37, 208, 281) (ASPIC)
Terapia della Focalizzazione o della Concentrazione furono i primi nomi che F. Perls (218) diede al modello che in seguito chiamò Gestalt Therapy. Il suo obiettivo era quello di stimolare nel paziente un’attenzione focalizzata sulle proprie esperienze problematiche. La concentrazione permette una maggiore conoscenza del disagio e ne favorisce l’espressione a diversi livelli, sensoriale, emotivo e cognitivo, stimolando comprensioni e consapevolezze che emergono dal paziente stesso, piuttosto che dalle interpretazioni fatte dall’analista sulle sue libere associazioni. La tecnica dell’identificazione, strettamente connessa al nuovo modello, unita alla drammatizzazione, aprì ad una terapia del profondo, ad esempio utilizzando il sogno e i sintomi. Focalizzare permette anche di individuare le interruzioni che si attivano nel continuo di consapevolezza e, paradossalmente, favorisce il libero fluire della coscienza verso nuove direzioni (IGAT)
Tecnica gestaltica di cui la forma base prototipica consiste nel chiedere al cliente cosa stia sperimentando nel qui ed ora della relazione, e che può assumere diverse varianti (cosa stia sentendo, cosa stia pensando, cosa stia provando, e così via). L’uso appropriato di questa tecnica, tuttavia, non è altrettanto semplice quanto la sua applicazione, poiché ha a che fare con il continuum della consapevolezza e con la capacità dello psicoterapeuta di cogliere i ‘momenti chiave’ nello svolgersi di tale continuum. In termini descrittivi, un momento chiave si verifica quando il cliente interrompe, per una qualsiasi ragione e in qualsiasi modo, la continuità del flusso della consapevolezza prima che il ciclo del contatto sia completato. Lo psicoterapeuta deve sapere riconoscere gli indicatori che segnalano l’interruzione del contatto e, a seconda delle circostanze e dell’opportunità del momento, proporre la focalizzazione. Anche il cosiddetto ‘stare con [quello che c’è]’ è una forma di focalizzazione: il cliente viene incoraggiato a prolungare il contatto con il sentimento o l’emozione espressa, costruendo così la capacità di approfondire la sua esperienza con un determinato vissuto e con le sue articolazioni (IPGE)
GESTALT
La parola tedesca Gestalt significa forma, nel senso di un insieme che, costituito dai suoi elementi e dall’effetto composizione, dà luogo ad una forma specifica che trascende la somma delle sue parti (151, 153, 161, 162, 216, 61, 219) (CSP/IGA)
Ha qualcosa di veramente toccante l’espressione con la quale Perls, nel suo In and Out the Garbage Pail cerca di esprimere qualcosa che lui stesso percepisce come inesprimibile: cosa cioè debba intendersi con il termine. “Una Gestalt è un fenomeno irriducibile. E’ un’essenza che c’è e che sparisce se si frammenta il tutto nelle sue componenti”. E ancora “Mi ci sono voluti ancora alcuni anni per capire la natura dell’autorealizzazione nei termini di Geltrude Stein “Una rosa è una rosa è una rosa”. L’uomo, al contrario, aggiungerà Parls in altre occasioni, è sempre alla ricerca di essere “altro” da quello che è o potenzialmente potrebbe essere. In tale discrepanza tra realtà ed auto-ingiunzione ricrea lo spazio della sofferenza psichica e della follia.
Alla domanda posta da Perls se “non esiste dunque la possibilità di un orientamento ontico nel quale Dasein – il fatto ed i mezzi della nostra esistenza – manifesta se stesso, comprensibile senza spiegazioni …” non esita a rispondersi con un “c’è sì! Per quanto possa sembrare sorprendente, viene da una direzione che non ha mai preteso lo status di fìlosofia. Viene da una scienza ben nascosta nelle nostre università; viene da un approccio che si chiama: psicologia della Gestalt”.
Gestalt è quindi, nella concezione di Perls, qualcosa che va al di là di un concetto inerente le leggi della percezione e della psicologia. E’ una filosofia e ancora di più: “Gestalt! Come posso far capire che la Gestalt non è solo un altro concetto fabbricato dall’uomo? Come posso dire che la Gestalt è, e non solo la psicologia, qualcosa che è inerente alla natura?”. Sembra qui di alludere alla Gestalt come a qualcosa che inerisce la struttura stessa della realtà, la “natura delle cose” che rimanda al De rerum natura di Lucrezio Caro come al concetto di physis greco che, stando ad Eraclito, “ama nascondersi” (physis kriptei philei“) (216, 387) (CSTG)
“ ‘Gestalt’ è una parola tedesca che corrisponde al significato di ‘struttura unitaria’, ‘configurazione armonica’. Questo termine è legato a due correnti di ricerca, nate in periodi e con obiettivi diversi: la psicologia della Gestalt […] e la psicoterapia della Gestalt […]. Tuttavia il fatto che queste due scuole siano accomunate dal nome ‘gestalt’ non è casuale” (340, p. 1). “Per gli psicologi della Gestalt la figura organizzata, significativa, rappresentava l’unità di misura della percezione e ad essa la ricerca doveva essere indirizzata. […] Il contributo di Kurt Lewin portò la psicologia della Gestalt fuori dal laboratorio, nella realtà molto più complessa della vita quotidiana, che egli considerò come ‘il campo’ in cui l’individuo si muove per raggiungere i propri obiettivi. II campo percettivo è per Lewin una sorta di sfondo, di mappa mentale da cui emergono di volta in volta figure nuove, che poi ritornano nello sfondo per lasciare il posto ad altre figure, percepite dall’organismo come rilevanti per il raggiungimento dei propri scopi” (340, p. 2). “[In psicoterapia della Gestalt] la prospettiva di campo ci consente di pensare alla percezione come a un ‘prodotto relazionale’, strettamente connesso alla pienezza della concentrazione degli individui coinvolti al confine di contatto” (342, p. 73). Il confine di contatto è il luogo in cui si dispiega il Sé, quella funzione dell’organismo umano che ne esprime la capacità/abilità di entrare in contatto con il proprio ambiente e di ritirarsi da esso (cfr. 354; 352). “Dunque ciò che cambia nel processo terapeutico gestaltico è la percezione del confine di contatto tra il paziente e il terapeuta. E’ un cambiamento che avviene non solo nel paziente, ma anche nel terapeuta; è in effetti una co-creazione di un nuovo confine di contatto, un’esperienza nuova protesa verso il futuro, non l’esplicazione riparatrice di esperienze passate” (342, p. 65) (HCC ITALY)
La parola tedesca “Gestalt” significa forma, nel senso di un insieme che, costituito dai suoi elementi e dall’effetto composizione, dà luogo a una forma specifica che trascende la somma delle sue parti. La psicologia della Gestalt, considera il percepire un processo che procede per congruenza e non per continuità. È questo il senso dell’intenzionalità: chi percepisce si dirige verso quegli oggetti che sono congrui all’emergenza dei bisogni dell’organismo nel momento in cui si manifestano, mentre il resto rimane sullo sfondo. A partire da qui, la Psicoterapia della Gestalt elabora un approccio centrato sulla capacità dell’organismo di autoregolarsi con l’affioramento dei bisogni, che incontrano soluzioni ai conflitti in modo autonomo. I bisogni non devono essere necessariamente amministrati dall’io, che viene considerato uno stile comportamentale, e la risoluzione esistenziale non consiste nel passaggio da malato a sano, ma da uno stato di blocco a uno stato di flusso, nella prospettiva di una vita che riprenda il suo corso invece di arrestarsi in contrapposizioni immobilizzanti. La PdG ha una base fenomenologica la quale lascia spazio al sentire come strumento di conoscenza intersoggettiva e all’incontro di un soggetto con un altro soggetto senza passare necessariamente per la mediazione di un’interpretazione concettuale. La terapia accade nello spazio abitato da terapeuta e paziente, dove il contatto produce nuovi orizzonti di senso. Il termine contatto in questa prospettiva fa riferimento a una vicinanza tra gli interlocutori che sia sufficiente perché qualcosa accada, ma allo stesso tempo a una distanza sufficiente perché possa succedere. La ricerca di un equilibrio tra contatto e distanza si traduce nella PdG nel dare spazio alle esperienze che disegnano distanze permettendone simultaneamente l’‘abitabilità’ (IGF)
ESPRESSIONE/GESTALT ESPRESSIVA
Nell’ambito della psicoterapia della Gestalt, manifestazione del proprio mondo interno. Si differenzia dall’azione, che implica invece l’intrusione nella privacy dell’interlocutore (per es. parlare dei propri vissuti è un’espressione, giudicare l’interlocutore è un’azione). Finché sul piano della realtà psichica si considera solamente l’esistenza di spazio esterno o interno, l’alternativa è solo fra agire l’impulso o reprimerlo: la parola crea però un terzo spazio, quello che D. Winnicott chiamò transizionale. Gli oggetti che lo abitano hanno dimensione esterna, ma acquisiscono peso solo in ragione dell’importanza che il mondo interno gli dà: sono oggetti transizionali per esempio i giocattoli (che assomigliano a oggetti esterni abbastanza da supportare l’esperienza del gioco), i fondali del teatro (che assomigliano al panorama abbastanza da rendere credibile il dramma allo spettatore) e soprattutto lo sono le parole, le quali hanno un enorme rilievo nell’esistenza umana, ma solo per convenzione culturale. Le parole formano e allo stesso tempo popolano un immenso spazio transizionale, che accoglie la maggior parte della vita di gran parte Darwin delle persone, le quali quando non parlano fra loro spesso ascoltano la televisione o leggono, o si occupano comunque di parole. L’accesso a questo spazio è dato dall’espressione, che si differenzia dall’azione soprattutto per il fatto di avere nello spazio esterno un peso più circoscritto. L’espressione ha effetti più gestibili dell’azione nei rapporti sociali: mentre l’azione ha conseguenze spesso problematiche o addirittura pericolose, il diritto all’espressione è ormai indiscutibile nei regimi democratici. La legge italiana, per esempio, ritiene penalmente rilevante dare del “delinquente” a una persona anche quando vi sia una sentenza passata in giudicato, mentre considera penalmente irrilevante un cattivo augurio come mandare qualcuno all’inferno (IGF)
In Gestalt, le tecniche espressive sono considerate strumenti fondamentali per esplorare le possibilità della dialettica reciproca e costruttiva tra individuo e ambiente che è nota come adattamento creativo. La creatività e l’utilizzo della drammatizzazione occupano un posto centrale nel processo terapeutico di tipo gestaltico sin dalle sue origini. Secondo Laura Perls, “la psicoterapia è tanto un’arte quanto è una scienza. Al buon psicoterapeuta, l’intuizione e l’immediatezza dell’artista sono tanto necessari quanto la formazione scientifica” (Perls, 216, p. 22-29). La psicoterapia della Gestalt espressiva pone una particolare enfasi sulla stretta analogia esistente tra la creatività impiegata nel processo artistico e quella sprigionata nel processo terapeutico. Principalmente da questa assunzione procede la possibilità di mettere concretamente a disposizione del paziente tecniche e mediatori che ne facilitino l’espressione (IPGE)
GRUPPO
Il gruppo secondo la Gestalt è un’esperienza orientata al contatto e alla consapevolezza, con una forte e potente funzione trasformativa. Viene considerato, per l’intensa esperienza relazionale che propone, come una realtà unitaria e olistica. È il luogo in cui l’individuo sperimenta un incontro relazionale che si sviluppa su più dimensioni. Il lavoro terapeutico di gruppo permette alla persona di sperimentare in misura maggiore le proprie modalità di contatto con l’ambiente, con gli altri , con le parti di sé, poiché il campo interpersonale offre più possibilità rispetto alla relazione duale. Perls ritiene che l’individuo debba stare in figura e il gruppo sullo sfondo. Al centro c’è la persona, il singolo che lavora all’interno del gruppo, quest’ultimo offre sostegno, si pone come sfondo che risuona e contiene, le interazioni degli altri partecipanti con il terapeuta o tra di loro sono limitate. In una versione più attuale, il gruppo partecipa al lavoro del singolo, offre presenza e sostegno, diventa luogo dove poter rappresentare i propri vissuti, dove drammatizzare e rivivere nel qui ed ora l’esperienza: i membri del gruppo partecipano attivamente, si coinvolgono nei lavori individuali, offrono i propri feedback. In questa prospettiva, il gruppo è una sintesi delle nostre forme di relazione più importanti, e anche il luogo dove poterle rielaborare e reintegrare nel qui ed ora, nello spazio del gruppo. Una più recente visione del gruppo è sostenuta da Polster, propone una visione del gruppo come esperienza comunitaria, sollecita a portare fuori dai contesti psicoterapeutici convenzionali limitati nel tempo (psicoterapia individuale e di gruppo) gli strumenti della psicoterapia in modo da creare esperienze a lungo termine che possano accompagnare l’individuo lungo il percorso dell’intera vita (Life Focus Communites). Il gruppo è uno ‘spazio transazionale’ che si muove tra l’emergenza di vissuti soggettivi ed un confronto con una realtà relazionale più allargata. Da questo la funzione di ‘laboratorio’ dove esplorare modalità alternative a quelle abituali e, pertanto, potenzialmente stereotipe e disfunzionali. Importante è anche la dimensione del contenimento-accoglimento, che rimanda ad una ‘funzione materna’ svolta dal gruppo come quella della confrontazione -sperimentazione che richiama la funzione paterna dell’esporsi al rischio di essere se stessi, anche in forma contrastiva e dialettica rispetto al ‘noi’ della dimensione gruppale (104, 219, 225, 227, 278) (ASPIC-CSTG)
“Il gruppo [termine affine all’illirico klupko=gomitolo] è una ‘situazione data’, che dal punto di vista gestaltico possiamo definire come una creazione continua di confini di contatto che si differenziano da uno sfondo. […] Lo sfondo del gruppo dà significato agli eventi/figure. Nello stesso tempo, il modo di essere dei membri del gruppo crea la vitalità, la qualità della presenza, e dunque la spontaneità o meno con cui la vita del gruppo attraversa le sue fasi” (340 p. 51).
“Le qualità di contatto di gruppo costituiscono i criteri sincronici con cui il leader gestaltico osserva il gruppo. […] Il leader gestaltico osserva il gruppo secondo tre criteri: la vitalità e la presenza dei membri del gruppo; la flessibilità della leadership; la capacità di accettare la novità e la diversità dei membri del gruppo. […] Per la psicoterapia della Gestalt, un gruppo che funziona non è un gruppo che obbedisce alle regole ‘sociali’, ma un gruppo che riesce a far fluire la leadership tra i suoi membri […] intesa come capacità di cura e di aggregazione del gruppo” (340 pp. 52-53). “La psicoterapia della Gestalt afferma l’unicità e l’autonomia del processo di gruppo rispetto all’individuo. Oltre a ciò, in virtù della prospettiva fenomenologica e di contatto, essa considera l’emergere delle figure di gruppo come il contributo individuale che crea la ‘musica’ del gruppo. Individuo e gruppo non sono due realtà distinte” (342 p. 232). “La storia del gruppo è una storia di intenzionalità di contatto e del sostegno che esse ricevono nei vari momenti evolutivi” (340 p. 56). “Sono convinto che nel laboratorio di gruppo si possa imparare moltissimo già comprendendo che cosa sta succedendo dentro ad un’altra persona, e rendendosi conto del fatto che moltissimi dei suoi conflitti sono anche i propri, e per identificazione si impara (215 p. 9) (HCC ITALY)
IMMAGINARE/IMMAGINAZIONE/IMMAGINE
“Immagine” è un’espressione “concentrata” della situazione psichica contenente sia elementi appartenenti alla coscienza che all’inconscio. L’immagine è un contenitore di opposti, miscela fonde e diffonde vari contenuti, crea la possibilità di entrare in contatto con il reale senza coincidervi. L’immagine è una produzione psichica basata sulla possibilità di costruire una dimensione di ambiguità e di tollerarla.
Si usa “Imago” al posto di “Immagine” quando si vuole sottolineare il fatto che le immagini, in particolare quelle di altre persone, sono generate soggettivamente, ossia che l’oggetto viene percepito a seconda dello stato interiore e delle dinamiche del soggetto (61, 43, 10, 73) (CSP/IGA)
I passi costitutivi della spirale del contatto permettono di vedere sia le possibilità di scelta che le conseguenze. Per sentire è necessario costruire metafore, per desiderare è necessario ‘mandare tentacoli’ qua e là per il mondo, in modo da rendere visibili le possibilità di scelta ed assaporarne il gusto, e per questo c’è un lavoro di base da fare: immaginare. La fantasia è un’operazione volontaria, cioè un lavoro. Le immagini con cui lavora la fantasia vengono dall’immaginario, come vari autori chiamano il magazzino/biblioteca, dove sono depositate le esperienze sensoriali via via acquisite nel tempo, sia che la persona le ricordi coscientemente o no. Le immagini non solo stanno lì, ma si ricombinano praticamente in tutti i modi possibili: è un movimento generativo che ne aumenta enormemente la quantità disponibile. L’immaginario tritura, ricombina, spezzetta e ricompone, con la tecnica del collage, con un’operazione meccanica dove sembra che non ci sia direzione, né ragione, né scopo. Un movimento a caso, anche se appare una certa significatività dove la ricomposizione avviene in funzione di certe emozioni. Memoria e ricomposizione, naturalismo e surrealismo. L’immaginario è in realtà la più grande ricchezza, mentre spesso chiudiamo a chiave questo magazzino perché il suo manifestarsi porta incertezza, e abbiamo paura di entrarci. Per attingere a questo deposito uno strumento essenziale è la libera associazione. Nella Gestalt con un termine introdotto da Friedlander, si parla di vuoto fertile, un vuoto (vedi) percorso da una corrente di energia: si cerca la risposta a una domanda di cui non si sa la risposta, il volere fa da pompa nel vuoto e così arrivano immagini alla mente. Il desiderio indica, fertilizzando il vuoto. Ciò che emerge non è la risposta, ma sono immagini con cui si può lavorare con la tecnica del collage; l’immaginazione funziona però solo se la si cavalca e non si mette da parte quel che man mano arriva: è in definitiva la longa manus dell’azione (IGF)
Il lavoro terapeutico inizia realmente quando il cliente entra nel vuoto, cioè inizia ad immaginare qualcosa, ed entrare nel vuoto mentale e, l’immaginazione funziona solo se si passa da un livello fantasioso immaginativo di esplorazione, fino ad arrivare ad una fase di azione. L’immaginazione è il luogo dove si sperimenta senza pericolo il cambiamento, ed è una grande risorsa che una persona ha a disposizione (215, 236).
Possiamo utilizzare la fantasia utilizzando le immagini che vengono dal nostro immaginario, ovvero quel luogo dove sono depositate le esperienze sensoriali che una persona ha raccolto nel tempo (sia che vengano ricordate coscientemente oppure no). Queste immagini continuamente si trasformano, si ricompongono in diversi modi creando un movimento creativo (236, 361).
L’immaginazione opera a vantaggio dell’azione e non è qualcosa di misterioso, ma ha una modalità di funzionamento che è il linguaggio analogico ed è un modo per conoscere l’insieme. Chi immagina utilizza e cerca continuamente dentro il suo spazio interiore (86, 225) (IGP)
INSIGHT
E’ un termine utilizzato dalla psicologia della Gestalt per indicare una ridefinizione del sistema che permette al soggetto di risolvere un problema in corso: descrive il processo di apprendimento non per ‘prove ed errori’, ma per una ristrutturazione concettuale degli elementi disponibili con conseguente salto verso una nuova configurazione. Nel linguaggio corrente si indica con il termine intuizione (IGF)
Termine utilizzato per indicare una ridefinizione del sistema che permette alla persona di risolvere il problema postogli.
L’apprendimento per insight comincia ad essere teorizzato negli anni ’20 prima della seconda guerra mondiale da Kohler che aveva studiato il comportamento degli scimpanzé di fronte al compito di raggiungere una banana tramite l’utilizzo di una serie di bastoni di diversa lunghezza (152).
L’Insight è un processo di apprendimento che non è basato su prove ed errori ma per riconfigurazione dello spazio del problema, una ridefinizione degli elementi che permette una improvvisa intuizione che porta ad una nuova soluzione o modo di osservare il fenomeno (182, 76).
Durante la seduta di psicoterapia l’insight è preceduto da un momento di empasse durante il quale il paziente viene incoraggiato a immaginare una soluzione al proprio problema, si crea quello che è anche definito come vuoto fertile dentro il quale mediante un processo creativo il problema viene smontato e rimontato dal paziente in un modo e senso nuovo da permettergli un salto evolutivo nella propria storia personale aiutandolo a valorizzare le proprie risorse (236) (IGP)
INTENZIONALITÀ
La prospettiva fenomenologica ha descritto l’intenzionalità della coscienza come l’attitudine del pensiero ad avere un contenuto. In chiave antropologica ciò significa che l’uomo è impegnato in un mondo che non gli è indifferente, verso il quale nutre intenzioni, aspettative, desideri. L’intenzionalità si collega, quindi, alla consapevolezza e all’impegno effettivo in direzione di un cambiamento possibile. Ciò che la caratterizza è di consistere in un processo graduale di individuazione. Essere in-tensione verso altro, verso una nuova frequenza, verso un obiettivo di crescita: tutto questo implica la necessità di allentare e lasciar andare i legami del passato che sono stati portatori di sofferenza e di condizionamento eccessivo (92, 104, 346, 85) (ASPIC)
L’intenzionalità è un comportamento attivo ed orientato attraverso il quale l’ individuo si assume la responsabilità di un azione, di un sentimento, di un suo essere nel mondo (27, 25, 61, 136, 137) (CSP/IGA)
Il termine ‘intenzionalità’ deriva dal latino intentĭo=tensione verso. “In psicoterapia della Gestalt, caratteristica della coscienza che tende a qualcosa di specifico. Nell’ambito dell’approccio fenomenologico (fenomenologia, metodo fenomenologico), il termine intenzionalità si riferisce ad uno degli aspetti più rilevanti della coscienza. La coscienza, infatti, esiste solo nel suo ‘rapportarsi a’ qualcosa, nel suo ‘in-tendere verso’ un oggetto, nel suo trascendersi. È nell’atto del ‘trascendimento’ che si costituisce la soggettività. È nella ‘trascendenza’ che si trova l’elemento sostanziale della coscienza. La nozione di intenzionalità, come emerge dalla fenomenologia di Husserl, implica da una parte l’impossibilità di una ‘realtà in sé’ e dall’altra l’esclusione di una ‘coscienza in sé’ incapace di percepire il mondo in ‘se stesso’. Sul piano epistemologico, un tale modo di concepire l’intenzionalità costituisce un fondamentale punto di riferimento sia per la psicologia che per la psicopatologia. Se l’uomo si costituisce essenzialmente nel trascendersi, nell’intenzionarsi, nell’entrare in contatto con quanto lo circonda, ciò implica la necessità che la psicopatologia e la psicoterapia debbano rivolgersi all’analisi di questo continuo ‘trascendersi’, ‘intenzionarsi’, ‘entrare in contatto’. Occorre soprattutto indagare ‘come’, con quali ‘forme’ e in quali ‘modi’, l’uomo si intenziona. È a questo nucleo centrale della ricerca che si rivolgono le psicoterapie ad orientamento fenomenologico o fenomenologico – esistenziale. La psicoterapia della Gestalt, in particolare, pone al centro dell’intervento di cura il sé, che in maniera consapevole ed attiva elabora significati, produce intenzioni, sussiste nel suo continuo aprirsi al mondo, tanto da costituire con esso una medesima realtà. E’ in questa relazione col mondo, in questo ‘in-tendere verso’ di esso, che occorre individuare l’origine della sofferenza mentale e al contempo lo spazio della cura” (346, p. 348; 338, p. 129). (HCC ITALY)
VOCE TRATTA, PER GENTILE CONCESSIONE DEI CURATORI, DA NARDONE G. E SALVINI A. (A CURA DI) DIZIONARIO INTERNAZIONALE DI PSICOTERAPIA, GARZANTI EDITORE, MILANO, 2013
Il concetto di intenzionalità della Gestalt Therapy (GT) dipende naturalmente dal background fenomenologico. L’ermeneutica gestaltica dell’Intentionalität fenomenologica è però duplice. Per un verso, il nesso inscindibile tra l’Organismo (O.) e l’Ambiente (A.), di cui discute tutta la prima parte del secondo volume di Gestalt Therapy, è la traduzione newyorkese della coscienza intenzionale di Husserl, il quale, per la prima volta nel panorama filosofico occidentale, prova a pensarla nella sua natura profonda di ‘funzione’ e non di mero ‘contenuto’ o aggregazione di idee e di dati. La coscienza come funzione relazionale è il diretto antecedente della collocazione dell’Organismo (O.) animale umano nel campo, fuori dal quale l’O. stesso non si dà, se il suo stesso respirare è in verità nient’altro che rapporto costante e vitale con l’aria. Per altro verso, però, la GT tende a smuovere la possibile staticità della relazione originaria, cogliendone l’aspetto dinamico ed evolutivo. L’O. e l’A. non solo sono in contatto, ma tendono costantemente al contatto quale processo fondativo della loro esistenza. Non si tratta cioè solamente di un radicale ‘essere in contatto’, bensì di un contacting inteso come evento, nel quale l’O. e l’A. vanno l’uno verso l’altro in maniera selettiva e mirata, in rapporto ai bisogni, alle esigenze, ai desideri e alle novità presenti nel campo. Pure il contatto scontato più basilare, quello con l’aria, può assumere, nella pratica della respirazione consapevole o nell’esperienza viva dello sport acquatico – e dell’apnea in particolare – i contorni di una tensione vitale dell’O. verso l’aria, elemento decisivo di un processo in cui essa diventa figura. L’O. non solo ‘è’ in contatto con l’aria ma ‘tende’ verso di essa come la freccia va verso un bersaglio, essenziale per il suo nutrimento e la sua crescita in quel preciso momento del proprio sviluppo (326, 330). L’intenzionalità fenomenologica diventa qui insomma, nell’accezione dinamica della GT, intenzionalità di contatto (hcc Kairos)
Nella fenomenologia si intende per intenzionalità l’attitudine della mente a dirigersi necessariamente verso un oggetto (teoria del riferimento intenzionale di Brentano): nella seduta questo apre la strada alle domande sull’oggetto delle emozioni della persona, la quale con le risposte può tessere una rete relazionale fra gli elementi (persone e oggetti) che fanno parte della sua esperienza (IGF)
INTROIEZIONE
L’introiezione è una delle resistenze classiche della Gestalt, un modo d’ interrompere il contatto che consiste nell’ impiegare la propria energia incorporando passivamente ciò che l’ ambiente ci fornisce (61, 149, 219, 62, 71) (CSP/IGA)
In psicoterapia della Gestalt, funzione che consente il passaggio di elementi dal mondo esterno al mondo interno dell’organismo/individuo. Tale funzione, prevalente nelle prime fasi evolutive, può rappresentare la base per la cristallizzazione di “introietti” (convincimenti consci e inconsci) che possono condizionare in positivo (come senso di riconoscimento e stima) o in negativo (come disconoscimento mancata valorizzazione del sé) le successive fasi dello sviluppo della personalità e della sua affermazione: “Introietti negativi del tipo “sei un buono a nulla”, “diffida di tutti” o gli infiniti altri che l’esperienza quotidiana, oltre che clinica, ci fanno incontrare sono alla base di condizionamenti che limitano in modo più o meno grave la possibilità dell’individuo a crescere, fare esperienze, arricchirsi, sviluppare le capacità discriminative e di scelta per realizzare un sé (osmosi individuo/ambiente) funzionale, capace quindi di eccitazione e di crescita.” (387, pg. 93). In Gestalt, l’introietto rappresenta dunque la base fisica e psicologica del materiale non assimilato presente nel mondo interno che, osservato nel mondo esterno e attualizzato in una dimensione interattiva e dialogica (sedia calda), può essere portato a un nuovo livello di consapevolezza e riattivato un nuovo processo di metabolizzazione che permetta di “masticare e digerire” “l’oggetto inghiottito” (219, pg. 140), per una ristrutturazione più funzionale e adattiva della vita psichica attuale. Nelle parole di Perls: “L’introiezione significa preservare la struttura delle cose assorbite, mentre l’organismo esige la loro distruzione. (…) L’introiezione – oltre a trovarsi nella melanconia, nella formazione della coscienza, eccetera – è parte di uno pseudo-metabolismo paranoico ed è in ogni caso contraria alle esigenze della personalità.” (219, pg. 139/140) (CSTG)
“[Quando] il sé compie un’introiezione (in inglese Introjection) opera uno spostamento della propria pulsione potenziale o del proprio appetito con quello di qualcun altro. Normalmente questo è il nostro atteggiamento nei confronti di tutta la vasta gamma di cose e di persone di cui siamo consapevoli […]: le convenzioni del linguaggio, l’abbigliamento, il piano di una città, le istituzioni. […] Un introietto consiste in un determinato materiale – un modo d’agire o di sentire, un tipo di valutazione – che avete accolto nel vostro sistema di comportamento, ma che non avete assimilato in modo tale da renderlo una parte genuina del vostro organismo. L’avete accolto sulla base di un’accettazione forzata e di un’identificazione forzata (e quindi falsa)” (219, p. 460). Nella recente prospettiva dello sviluppo polifonico dei domini, teorizzata da Margherita Spagnuolo Lobb, l’“introiettare, una modalità di contatto caratterizzata dall’assimilazione di stimoli ambientali” (340, p. 43), è considerata un dominio. Nell’introiettare, l’“energia del bambino è focalizzata sul ‘dare nomi’ alle cose e ai pattern relazionali. Questo gli consente di acquisire un senso di potere”. Tutto il suo sé è dedicato ad apprendere dal mondo portando il mondo dentro di sé. Il bambino trae energia e senso di sé lasciando che il mondo lo plasmi. La sua creatività si esprime come curiosità nei confronti del ‘sapore che ha il mondo quando lo assaggio’. Sviluppando questo dominio, il bambino dà un nome anche a sé stesso e a ciò che fa (‘Luca ha fame’, ‘Luca è un bravo bambino’, ecc.). Questa modalità di contatto si sviluppa per tutta la vita e sta alla base della capacità di apprendere. […] Per evitare l’ansia, si stabilisce un contatto attraverso questo stile di interruzione della spontaneità: lo sviluppo dell’eccitazione è interrotto attraverso l’uso di una regola o di una definizione prematura” (cfr. 339, p. 84) (HCC ITALY)
Se nel percorso di contattare l’Ambiente (A.) l’emergere delle sensazioni dell’organismo (O.) non è stato interrotto, inizia la seconda fase, ossia il processo di identificazione del bisogno e di orientamento sul da farsi. Se l’interruzione accade in questo momento, invece di fidarsi della propria spontaneità il soggetto si attacca in modo inconsapevole e rigido a ‘introietti’ ingoiati (i ‘devi’, gli ‘idola’ di baconiana memoria). Non essendo (stato) incoraggiato a fidarsi della propria spontaneità, egli è travolto dalla paura di sbagliare e diventa dipendente in modo acritico dall’A. Perls direbbe: non mastica il cibo per mancanza di fiducia nei propri denti (218). Per questo l’O. nega il proprio gusto e si fa guidare da valutazioni e gusti non suoi e non assimilati. È un processo talmente inconsapevole che, ad un certo punto, egli «giustifica come normale ciò che il Sé che si concentra sente come corpo alieno che vuole rigettare» (219, p. 267). A livello corporeo, l’interruzione (e quindi l’ansia che ne consegue) crea sorrisi forzati, desensibilizzazione del palato, bacino arretrato, nausea, incapacità di masticare il cibo fino in fondo (l’alcolismo rientra in questa fase, come molte altre dipendenze) (interruzione come introiettare) (hcc Kairos)
Il concetto di introiezione è stato introdotto da Ferenczi (62), secondo il quale “(…) Il nevrotico cerca una soluzione accogliendo nell’io quanto può del mondo esterno”. Riprendendo lo stesso concetto, Freud (71) ritiene che l’individuo reagisce alla perdita d’amore identificandosi con la persona amata. F. Perls va oltre, e facendo riferimento ai processi fisiologici, in particolare al nutrimento, considera l’introiezione il risultato di una mancata assimilazione di cibi indigesti. Analogamente, le esperienze che scaturiscono dal contatto con l’ambiente possono essere difficili da accogliere, fissandosi come corpi estranei, non digeribili all’interno dell’organismo. Vissuti e comportamenti si irrigidiscono nel tempo dando forma a organizzazioni carattero-copionali limitanti per la piena espressione dei nostri potenziali e per il libero fluire di desideri, bisogni e consapevolezze. Perls propone il riappropriarsi dell’aggressività naturale come antidoto per destrutturare i corpi estranei che condizionano la nostra esistenza. Le introiezioni, che a volte si presentano in forma di incubi, di paure ingiustificate, sono il residuo di vecchi messaggi che il bambino ha ricevuto e inghiottito passivamente, non avendo ancora le risorse per destrutturarli e assimilarli, e come tali possono ancora influenzare le nostre vite di adulti. C. Naranjo (205) individua l’introiezione come meccanismo di difesa dominante nell’enneatipo quattro o invidia. In questo carattere, l’introiezione di una figura genitoriale rifiutante, produce una cattiva immagine di sé e un continuo senso di carenza. “Il quattro interiorizza il rifiuto genitoriale o introietta un genitore non amorevole, portando così nella propria psiche una costellazione di caratteri che vanno da un cattivo concetto di sé alla necessità di distinguersi in modo speciale, e che implicano una sofferenza cronica e una dipendenza (compensativa) dal riconoscimento esterno” (IGAT)
MECCANISMO DI EVITAMENTO/INTERRUZIONE DI CONTATTO
Il verbo – ‘interrompere’ – costituisce la cifra ermeneutica della clinica gestaltica. Ogni malessere psichico in GT viene letto come interruzione di uno specifico episodio di contatto. Se il percorso che porta l’O. al contatto con l’A. si interrompe anche la crescita dell’O. fallisce in quanto l’eccitazione ad esso correlata diventa fonte di angoscia e non permette all’O. di portare a termine la propria intenzionalità (cfr. 210). L’interruzione può avvenire in diversi momenti di tale percorso: a seconda del momento in cui accade, si determinano tipi diversi di interruzione, altrimenti dette ‘patologie’. Individuare il tempo in cui avviene un’interruzione e i modi in cui si manifesta costituisce la clinica gestaltica. La differenza dei diversi tipi di interruzione dipende – sottolinea Goodman – dal momento in cui avviene l’interruzione (cfr. 170). Perché l’interruzione sia disfunzionale (patologica) deve avvenire: in modo inconsapevole (mentre è in atto una sequenza intenzionale di passi ben precisi volti a raggiungere il contatto con l’A.), a livello corporeo (il respiro che sta aprendosi si chiude all’improvviso e si origina l’angoscia) e relazionale (vengono distorte le immagini di sé e quella dell’altro). Le interruzioni hanno la caratteristica di stratificarsi lungo il tempo, per cui è necessario un lavoro tipo ‘pelare la cipolla’ (cfr 170) per portare al confine di contatto della relazione terapeuta-paziente le interruzioni primarie che hanno dato origine all’angoscia. I vari tipi di interruzione non vanno identificati come nuove patologie, ma sono strumenti di comprensione e di orientamento di un determinato comportamento disfunzionale dell’O. quando vuole raggiungere l’A. per un contatto nutriente. Lo studio dei momenti e dei modi in cui può accadere l’interruzione di un episodio di contatto permette diagnosi e conseguente cura (cfr. 203) (hcc kairos)
A ciascuna delle fasi della spirale del contatto può corrispondere un atto di interruzione, nel caso che istanze contrarie si adoperino per impedirne l’avvento. Un esempio pratico. Mettiamo che in una persona si attivi un impulso aggressivo per qualcuno, senza però che desideri uno scontro: 1. Può semplicemente non rendersi conto dell’emozione, non dandogli forma e non arrivando nemmeno alla seconda fase, cioè a 2. dirsi cosa desidera. Arrivate qui d’altra parte, spesso le persone riescono ad immobilizzarsi affermando che non sanno cosa vogliono: ma per volere bisogna immaginare delle opzioni (che è un’operazione creativa e cosciente), [vedi: Immaginare] e poi scegliere! Una scelta che comporta assumersi la responsabilità delle conseguenze, e ogni scelta ha le sue specifiche conseguenze. 3. Nel caso poi che la persona scelga cosa desidera, rimane ugualmente inefficace se non decide cosa fare: desiderare qualcosa non basta certo per averla (IGF)
L’evitamento avviene quando c’è paura, angoscia e ci si sente in pericolo. Si sente, più o meno consciamente, che ci si deve trattenere dal fare qualcosa o dall’essere e dal manifestarsi in un qualche modo, principalmente davanti a qualcuno ma anche con se stessi (45). L’evitamento infatti si applica nel contatto interpersonale, nell’incontro Io-Tu, ma anche nella relazione intrapsichica tra me e me stesso, quando per esempio evito di prendere consapevolezza di aspetti della mia esperienza di cui ho timore (86). L’evitamento implica la presenza di un Io che sceglie o aspira ad essere in un qualche modo e che evita, rifiuta di essere in qualche altro. A ciascuna delle fasi del ciclo del contatto può corrispondere un atto di evitamento (218). Si può evitare di sentire l’emozione oppure non chiedersi qual è il bisogno legato ad essa perché ad esempio hanno paura di assumersi la responsabilità di cambiare la loro vita o perché credono non il loro bisogno sia irrealizzabile (184). Il principio di base della psicoterapia della Gestalt è la consapevolezza e lo sviluppo della capacità di risposta (respons-abilità). divenirne consapevole di cosa evitiamo ci consente di trovare nuovi modi di rispondere alle proprie difficoltà. Si tratta di allargare i confini dell’Io, cercare di non funzionare più in quei soliti modi di sempre, diventare consapevoli e cercare di evolverci, di superare i nostri limiti (202) (IGP)
MEDITAZIONE
La meditazione è una proposta integrativa per i professionisti e i fruitori sulle origini della Mindfulness, rivisitando il “Qui e Ora” e il vuoto fertile della Gestalt Therapy. L’esperienza diretta della meditazione consente di esperire la natura vibratoria della mente portando a coscienza la vera entità del corpo fisico con cui l’energia si manifesta direttamente. Le varie tecniche meditative servono per raccogliersi e raggiungere una concentrazione mentale tesa ad una migliore gestione degli stati di coscienza (119) (ASPIC)
La meditazione è diventata centrale nel modello gestaltico di C. Naranjo (206) e nella sua emanazione, il programma SAT. Con diversi tipi di pratica si tende al raggiungimento del rigpa o stato di consapevolezza della natura del Buddha. Lo scopo è di risvegliare la coscienza sottile fino a scoprire la mente pura o assoluta. Le pratiche più conosciute appartengono alla tradizione del Buddhismo antico, lo Hinayana, di cui fa parte la meditazione Vipassana, che consiste nel dare attenzione al vuoto e osservare il fluire dei fenomeni nel qui e ora, senza entrare in giudizi o valutazioni. Il Mahayana, più tardivo, ha tra le sue scuole lo Zen, la meditazione del non far niente, che introduce l’attenzione alla compassione, l’amore per l’altro. Il Vajrayana, ricco di tante forme, molto diffuso nel buddhismo tibetano, si avvale di molteplici pratiche, anche collettive e ritualizzate, in cui si dà attenzione alla mente, al corpo e all’energia (IGAT)
METAFORA
La costruzione della metafora in terapia rappresenta un processo gestaltico, di creazione di una Gestalt, in cui il tutto (la metafora) è una totalità differente dalla somma delle parti (gli elementi che costituiscono la metafora). Attraverso l’impiego della metafora, il terapeuta, nel rispetto dei vissuti unici e irripetibili del cliente, lo motiva verso una consapevolezza ristrutturativa. L’uso mirato delle metafore, nelle diverse fasi del ciclo del contatto, può costituire un “acceleratore” del processo di cambiamento e rinforzare la motivazione del paziente ad immergersi nell’esplorazione esperienziale (86, 100) (ASPIC)
Figura retorica che implica un trasferimento, trasforma il significato in senso. La metafora sposta la persona da una posizione descrittiva e distanziata dagli eventi ad una posizione esperienziale carica di senso ed emozionalmente connotata (12, 43, 61, 277) (CSP/IGA)
Dal greco metaforein, trasportare, si intende per metafora uno strumento linguistico di trasporto dei contenuti: la metafora evoca, non descrive, ed è mezzo essenziale per tutti i cammini analogici, dalla poesia alla psicoterapia, i quali maneggiano contenuti senza nome (IGF)
La metafora è una figura retorica, che, come la similitudine, crea un collegamento, un paragone, tra uno stato interno e un’immagine esterna (12). Tuttavia, mentre nella similitudine avviene un paragone tra i due elementi, nella metafora l’immagine esterna non è più solo un termine di paragone con lo stato d’animo, con l’emozione, ma ne diventa una rappresentazione, una sorta di narrazione, creando tra i due mondi, esterno e interno, una sovrapposizione, una vicinanza, una vera e propria identificazione: l’immagine esterna parla dello stato interno come se fosse quello (365). Da qui il potere evocativo e trasformativo della metafora nella relazione terapeutica: il linguaggio metaforico, rivolgendosi all’emisfero destro, va al di là della semplice e di solito insufficiente comprensione razionale del problema, e ha un’immediata risonanza emotiva nel paziente (366). Questo fa della metafora un efficace strumento di consapevolezza: la persona si apre ad una nuova e differente visione emotiva della propria situazione, cambia il modo di guardare al problema, cambiano le sensazioni e le emozioni interne, e inevitabilmente si modifica la percezione di sé e del mondo, nonché della personale capacità di affrontare e risolvere le proprie difficoltà (IGP)
La metafora in psicoterapia ha una importante funzione descrittiva e comunicativa di stati interni, emotivi e cognitivi. Attinge dal bagaglio immaginativo che viene usato per descrivere in maniera indiretta ciò che è difficilmente esprimibile in modo diretto. Le metafore sono usate come codici linguistici e quindi come una sorta di traduttore simultaneo proveniente dalla capacità di simbolizzare di ogni individuo dove le immagini create risultano evocative di stati mentali ed emotivi sovrapponibili alla realtà esperita. Il processo mentale per cui il “come se” comunica un determinato vissuto o un certo pensiero assolve, per l’organismo, alla funzione di transitare nella dimensione del pre-contatto tra l’organismo stesso e i suoi pensieri e sentimenti; abbandonato il “come se” e assunto successivamente il “come”, l’organismo contatta invece pienamente quegli stessi pensieri e sentimenti esattamente per quello che sono (211) (SiPGI)
NARRAZIONE
In campo clinico, Erving Polster suggerisce che la vita di ogni persona può essere vista come un romanzo: la scoperta di tale analogia sarebbe di per sé terapeutica. La narrazione è un modo in cui un individuo rappresenta e spiega gli eventi interni e esterni. Il processo interattivo comunicazionale si sviluppa tramite il linguaggio collegato al pensiero, alle sensazioni e emozioni. Le dinamiche, i diversi accadimenti, personaggi ed epiloghi, possono essere rappresentati come veri e propri sceneggiati in cui si individua il protagonista, l’eroe, l’antieroe, la vittima. La narrazione del cliente al terapeuta si può considerare un atto creativo tramite il quale il cliente supera, nel contatto con il terapeuta, schemi relazionali insoddisfacenti appresi in relazioni precedenti. La narrazione crea la relazione, è un atto co-realizzato tra cliente e terapeuta. Nella relazione emerge una verità narrativa che si estrinseca, qui ed ora, in uno spazio, un vuoto fertile dove accadono le cose, si permette un movimento, un interazione tra cliente e terapeuta, dove la storia si disegna nuovamente. L’auto-narrazione consente l’organizzazione dei collegamenti nel proprio sé per ordinare le esperienze secondo parametri autoreferenziali ed esperire un senso d’identità coerente. La narrazione di sé, della propria storia permette al cliente di integrare tutti gli avvenimenti in un senso di sé più coeso e coerente, in cui egli può riappropriarsi delle proprie responsabilità rispetto a sé stesso (alla sua vita, emozioni, pensieri …). La narrazione consente che l’affetto di se possa essere trasmesso: il cliente diventando oggetto della propria narrazione nel suo spazio terapeutico sperimenta in maniera nuova, con maggior pienezza, il proprio ‘esser-ci’. Infine secondo Perls il narratore realizza un buon contatto quando ha bisogno di comunicare e trae energia nella sua narrazione da se stesso, dal suo ascoltatore (terapeuta) e dall’argomento narrato (102, 96, 219, 229, 232, 339) (ASPIC)
E’ il primo mezzo interpretativo e conoscitivo di cui l’uomo fa uso nella sua esperienza di vita per dare senso e raccontarsi al mondo. Nello stesso tempo definisce il senso di identità nelle parti di cui si compone, che sono io, si sviluppa e si orienta intorno alla possibilità di raccontarsi. Infatti con la narrazione l’uomo da senso e significato al proprio esperire e su queste basi costruisce forme di conoscenza che lo orientano nel suo agire. In terapia è uno degli elementi fondanti della relazione, potersi narrare, raccontare, è già di per sé una forma di ristrutturazione del mondo interno della persona. Ri-costruire la propria storia, darle una forma narrativa è un importante fase del percorso terapeutico gestaltico in cui il cliente fornisce informazioni, copioni tipici e stili di comportamento che diverranno fulcro della terapia in quella che diventerà una Co-costruzione narrativa di senso e di esperienze che il cliente fa insieme al terapeuta (IPGE)
Comunicazione e racconto di fatti, eventi e vissuti della propria esperienza da parte del paziente al terapeuta; da un punto di vista della sua funzione clinica può essere distinta in due fasi: si può definire la narrazione della prima fase “narrazione univoca” caratteristica dei primi momenti della relazione terapeutica quando il paziente racconta la sua storia con il solo intento di fornire informazioni ed elementi conoscitivi su di sé senza però che essi siano percepiti da lui come rappresentativi o significativi rispetto alle interruzioni del contatto. In una fase successiva si può parlare di “narrazione condivisa”, che avviene quando vi è tra terapeuta e paziente la reciproca consapevolezza (appresa durante la terapia) di come le esperienze riferite siano un materiale cui si può attribuire un dotazione di senso in riferimento alle origini dei propri blocchi. Questo passaggio tra univocità e condivisione è per il paziente cruciale poiché determina un modo nuovo di stare con il proprio racconto, e quindi con le parti di sé che esso realmente sta esprimendo, conferendo cosìa questaconsapevolezzail ruolo di dimensione di sostegno al cambiamento (67, 102, 229) (SiPGI)
NOW AND HOW
La consapevolezza di stare nel presente dà valore a ogni azione compiuta, anche la più ordinaria. Vivere pienamente l’attimo significa essere nell’unico tempo che esiste, il presente, che è il momento dell’esperienza soggettiva nell’atto del suo compiersi, prima di essere riformulata attraverso la parola. Ogni persona sperimenta l’unità della propria vita con un movimento verso il futuro che si forma nel momento presente. I regni del pensiero fatti di ricordi, di rimpianti e di occasioni perdute allontanano la persona dal qui e ora, portandola “fuori tempo”. Recuperare l’ascolto nell’hic et nunc ci riporta ad un contatto più autentico con noi stessi, alla riscoperta del nostro corpo e delle sue esigenze (58, 230, 360) (ASPIC)
Sono due delle quattro parole chiave della Gestalt (Ora e come, Io e tu). Può essere considerata come declinazione del Qui ed Ora, dimensione descrittiva di uno stato attualizzante dell’esperienza, ad essa propedeutica. Nella prospettiva Gestaltica è importante l’aspetto fenomenologico della condivisione del Qui ed Ora, ovvero la qualità del processo mediante cui si è centrati nell’esperienza attualizzante come aspetto prevalente dell’esperienza (219) (SiPGI)
NOW-FOR-NEX
“Se al suo nascere la psicoterapia della Gestalt coglieva nella fenomenologia il valore dell’unitarietà dell’esperienza e della conoscenza che passa dai sensi, oggi – accertati questi valori – la comunità gestaltica vede un interesse rinnovato nello studio della fenomenologia per ciò che riguarda l’intenzionalità, il now-for-next. La co-creazione dell’esperienza terapeutica è motivata – sostenuta e diretta – da un’intenzionalità, che per l’approccio gestaltico è sempre un’intenzionalità di contatto con l’altro” (339 p. 29). Margherita Spagnuolo Lobb, nel libro Il now-for-next in psicoterapia. La terapia della Gestalt raccontata nella società post-moderna, descrive in dettaglio questo concetto dimostrando come oggi sia cruciale: “[…] il terapeuta può allinearsi con il linguaggio del paziente sostenendo il now-for-next, quella tensione per la realizzazione dell’intenzionalità di contatto che è già sempre presente nell’esperienza del paziente” (339 p. 117). “Il contatto è riuscire a ‘scoprire e a realizzare’ la soluzione futura” (219 p. 44). “La felicità infatti non è solo l’esperienza che consegue al raggiungimento di un obiettivo, ma è anche il vissuto che si accompagna alla speranza, caratterizzato da un’apertura al now-for-next, al movimento dell’altro” (351 p. 59) (HCC ITALY)
Di matrice esistenzialista, questa espressione esprime uno dei concetti chiave della Gestalt Therapy su cui ha dato un valido contributo E. Polster (229). È una lettura del tempo presente che differenzia la GT rispetto alle altre correnti terapeutiche. Lo scontato here-and-now, che aveva in modo pioneristico iniziato O. Rank (252) ed era stato accolto dalle terapie nate negli anni cinquanta, nella GT viene intimamente connesso con il now-for-next. Mentre il qui-e-adesso rimanda al vissuto del momento presente, il now-for-next inscrive dentro una sequenzialità temporale, il presente nel presente immediatamente prossimo. Il momento che vivo è epigeneticamente proteso verso l’attimo successivo, è aperto verso ciò che avverrà e che già si sta preparando. Non va visto in sé, ma in relazione al ‘dopo’. È il senso genuino dell’antico panta rei, che acutamente Montaigne traduceva «Tutto è in movimento». Ogni presente è inserito in un episodio, ossia in una intenzionalità che è in fieri, che fa cioè parte di un processo (296). Per la GT, dunque, nulla accade all’improvviso o casualmente – come sosteneva Stern –, ma è dentro una successione consequenziale. Il presente, dunque, si declina per la GT su due registri: l’accadere nel suo qui-e-ora così come viene vissuto dal soggetto e lo spazio infinitesimo fra tale presente e l’attimo successivo già materialmente presente. È’ un attimo importante questo perché determina la connotazione delle parole: il senso che esse acquistano dipende da ciò verso cui tendono. La gestione della pausa tra una parola e l’altra è connessa con ciò che l’autore vuole dire. Nell’idea di E. Polster, allora, la sequenzialità – musica di ogni dialogo – è il segno di un contatto nutriente. Nelle interruzioni di contatto (altrimenti dette patologie) questa viene distorta e si perde il ritmo presente/presente prossimo: i due ritmi non si compongono in gestalt e rimangono sconnessi (hcc Kairos)
OLISMO, OLISTICO
“Col termine olismo [dal greco όλος=totalità] Smuts (v. 335) indica un fattore che si pone alla base della vita e dell’evoluzione dell’universo. La totalità è, a suo giudizio, ciò che conferisce una struttura, una conformazione specifica a ciascuna delle parti e al contempo le organizza fra di loro.
La totalità, però, non è un terzo al di sopra delle parti che la compongono, ma consiste nelle parti, nella loro unione e nelle nuove relazioni che da questa unione derivano. Anche la personalità può essere considerata come una totalità composta da diverse tendenze e attività (parti). Anzi, in un’ottica olistica, la personalità ha la funzione specifica di mantenere nell’unità e nell’armonia le diverse tendenze e attività, pur nel loro continuo evolversi. Nella misura in cui si realizza una tale ‘unità olistica’, viene raggiunta una integrazione delle diverse tendenze, risulta composto il conflitto interno e scongiurata ogni forma di deterioramento psicologico. […] Il comportamento [umano] è sempre organizzato e coinvolge sempre l’intero organismo in relazione al campo. Nei processi vitali, [sostiene] Goldstein (v. 120; 121), è l’organizzazione del comportamento a controllare le parti e non viceversa. Da qui la sua critica a tutte le teorie della pulsione e della riduzione della tensione, le quali isolano tali parti del comportamento, senza alcun riferimento alla totalità organizzata dell’organismo. Quest’ultimo, infatti, in quanto totalità o ‘Sé’, ha una funzione organizzante dalla quale non è possibile prescindere e sul cui sfondo soltanto ciascuna parte acquista un suo specifico significato” (39, pp. 121-122). (HCC ITALY)
VOCE TRATTA, PER GENTILE CONCESSIONE DEI CURATORI, DA NARDONE G. E SALVINI A. (A CURA DI) DIZIONARIO INTERNAZIONALE DI PSICOTERAPIA, GARZANTI EDITORE, MILANO, 2013
Se per olismo si intende il punto di vista per cui l’insieme trascende la somma delle sue parti, visione olistica è visione dell’insieme. Se l’insieme è più della somma, vanamente se ne descriverebbero le parti per renderlo visibile: la più accurata delle descrizioni porterebbe solo ad aumentare a dismisura i dettagli senza mai giungere all’insieme. La visione olistica consiste nel guardare direttamente l’insieme, lasciando sfuocate le parti: ciò significa vedere l’interlocutore come sempre trascendente le sue parti (IGF)
POPOLARITÀ
La Gestalt persegue l’integrazione armoniosa delle polarità complementari insite nei comportamenti umani (morbidezza-durezza, tenerezza-forza, gioia-tristezza, calma-attivazione, maschile-femminile, calore-freddezza, vicinanza-distanza, ecc.). L’approccio semi-direttivo della Gestalt non tende ad un grigio ‘giusto mezzo’ nelle cose della vita, ma difende con passione il diritto di sperimentare fino in fondo tutte le polarità dell’esistenza (86) (ASPIC)
Concetto per io quale le due parti in gioco non sono contrapposte ma sono entrambe elementi fondanti della realtà e co-esistono in una relazione dinamico-polare; più che di polarità, sarebbe infatti opportuno parlare di multilarità (409), termine che presuppone il procedere per coppie correlate – individuo/ambiente, figura/sfondo, mondo interno/mondo esterno, maschile/femminile, cosciente/inconscio, etc. Rispetto a quest’ultima scriveva Perls “La concentrazione perfetta è un armonioso processo di cooperazione conscia e inconscia” (213, pg. 199). Oltre alla contrapposizione dualilstica il concetto richiama la polarità dinamica Yin/Yang del Tao. La dinamica della polarità trova nella concezione della Gestalt la sua evoluzione più radicale che va oltre la stessa concezione junghiana sulla sintesi degli opposti – Sé e Ombra – fondata sul “principio contrappositivo che evoca il fantasma dell’Anticristo, del Nemico-Male che deliberatamente si oppone al Cristo-Bene” (400, pg. 2). In una dimensione definita in ambito fenomenologico di epochè “sta la possibilità di osservare in modo equanime la polarità in gioco con la possibilità di constatare, alla fine di una interazione tra le ‘parti’, per la quale il giusto non sta da una parte o dall’altra ma, piuttosto, nella ‘modalità’ con la quale le due parti sanno dia-logare” (400, pg. 11). Al contrario, l’assenza di una tale conjunctio oppositorum si fa tragedia e la folle presunzione di una delle “parti” di poter eliminare la parte percepita come nemica e minacciosa, in sintesi altra-da-sé e, pertanto, inconoscibile, si produce nella voragine della spaccatura. “Lo splitting della personalità conduce infatti a quella inconoscibilità tra le parti del Sé così acutamente colta dal neo-mito del dottor Jekyll e del mister Hyde e che, non casualmente, tanto successo ha avuto” (387, pg. 69) (CSTG)
“Il termine polarità [dal latino polus=estremità di un asse, polo] può essere usato come sinonimo di opposizione, di contrario. […] Concepire la terapia come integrazione di polarità opposte, porsi l’obiettivo di rendere sempre più ‘fluido’ il processo che porta alla formazione della figura, costituiscono […] alcuni degli elementi che più caratterizzano l’approccio gestaltico. […] Parlando di polarità non possiamo evitare le domande relative al tipo di relazione che lega fra di loro due polarità opposte” (39, p. 116). “Sulla base del significato che attribuiamo a tale relazione, infatti, integrare può voler dire mediare una sintesi stabile fra due polarità; favorire la loro coesistenza, mantenendo intatta la loro radicale diversità; alimentare una incessante tensione e oscillazione fra due opposti uniti da una continua reciprocità” (39, p. 117). “Al processo di differenziazione in polarità opposte è legata, secondo Perls, ogni forma di evoluzione […]: più l’Ego è capace di estendersi nella vasta gamma di differenziazioni polari che gli è dato raggiungere, più sarà in grado di sviluppare funzioni diverse e, quindi, di progredire. […] Esisterebbe, dunque, una stretta connessione fra capacità dell’Ego di delineare polarità sempre più differenziate e sviluppo delle sue capacità di adattamento” (39, p. 118). Zinker distingue fra polarità “ego-sintoniche”, o accettabili alla coscienza di sé, e polarità “ego-aliene”, o inaccettabili al Sé. “Spesso – egli afferma – il concetto di Sé esclude la dolorosa consapevolezza di forze polari dentro di noi” (409, in 39, p. 125). “A suo giudizio la persona è sana quando è un ‘cerchio completo’, quando cioè possiede migliaia di polarità tra loro integrate ed è consapevole della maggior parte di esse, riuscendo ad accettare anche quelle che la società disapprova. Il fatto che una persona non provi essa stessa alcune polarità e tuttavia le renda oggetto sofferto della sua consapevolezza costituisce un elemento inconfutabile di salute mentale e di forza interiore” (39, p. 125). (HCC ITALY)
Il concetto di polarità in Gestalt si ispira alla concezione taoista, nella quale i principi di Yin e Yang richiamano il dualismo dell’esperienza umana, condizione relativa rispetto all’assoluto, risultato dell’integrazione. Secondo Perls, è importante mettere in atto il processo di differenziazione in polarità opposte per riuscire ad evolvere, perché più l’Ego è capace di estendersi nella vasta gamma di differenziazioni polari, più sarà in grado di sviluppare funzioni diverse e di progredire, accrescendo le sue capacità di adattamento.
Secondo Zinker (289) alcuni aspetti polari non giungono alla consapevolezza. Egli distingue fra polarità “ego-sintoniche”, o accettabili alla coscienza di sé, e polarità “ego-aliene”, inaccettabili. Le persone più consapevoli, nelle quali la rimozione è minima, riconoscono con maggiore facilità parti di sé che altrimenti non contatterebbero.
In Gestalt esistono varie tecniche per acquisire consapevolezza e raggiungere l’integrazione, tra cui quella “delle due sedie”, nella quale si chiede al paziente di identificarsi alternativamente con entrambe le polarità e di portare avanti un dialogo integrativo. Quando Perls stimolava i suoi pazienti a contattare polarità e contraddizioni interne, mirava a sciogliere blocchi al fine di liberare energie da utilizzare per la realizzazione della loro autonomia.
Secondo Ginger (86), la Gestalt ricerca l’integrazione armoniosa delle polarità, come, ad esempio, aggressività e tenerezza, mascolinità e femminilità, flessibilità e rigidità, piuttosto che l’eliminazione dell’una a vantaggio dell’altra, o la ricerca illusoria di un compromesso, pallido grigiore di sentimenti contraddittori e attutiti (IGAT)
Per polarità in Gestalt si intende quelle che in filosofia si chiamano tesi e antitesi: non c’è bisogno che abbiano delle specificità opposte, possono essere anche semplicemente elementi uguali e coesistenti orientati in direzioni diverse. Non c’è bisogno di cercare qualcosa che abbia questa connotazione di polarità per mettere in piedi un dialogo con la sedia vuota: la persona può immaginare che ci sia uno specchio e di vedere la sua immagine riflessa, con la quale può dialogare a piacere. Quello che però è indispensabile è che ogni parte voglia qualcosa dall’altra, sia cioè intenzionata, nel senso che intende Brentano: senza questa componente l’evento si riduce a chiacchiere senza costrutto (IGF)
PSICOLOGIA DELLA GESTALT
Corrente della psicologia contemporanea le cui ricerche si sono incentrate sulla percezione e l’esperienza soggettiva, che secondo questo approccio si organizzano secondo il principio olistico per cui il “tutto” che si viene a formare é qualitativamente differente dalla somma delle parti che lo costituiscono. La mente quindi non si limita a ricevere informazioni dagli organi di senso, ma organizza tali informazioni in modo attivo (ristrutturazione intuitiva – insight), sulla base di principi tendenzialmente innati, secondo le leggi dell’organizzazione percettiva. Tutte le immagini sensoriali sono perciò percepite come un campo di forze in cui gli elementi si condizionano e interagiscono a vicenda creando un fenomeno. Nell’ottica fenomenologica oggetto di studio sono i dati così come essi si presentano direttamente al soggetto, senza mediazioni intellettuali. Ogni atto di visione è quindi sempre una scelta, ossia l’attribuzione di particolare importanza a certi stimoli che emergono in figura trascurandone altri che quindi vanno sullo sfondo (86, 125, 153, 219) (ASPIC)
La Gestaltpsychologie o Scuola di Berlino si inserisce tra le scuole strutturaliste della percezione, di cui rappresenta sicuramente quella che ebbe il maggiore influsso sullo sviluppo della psicologia.
La nascita della psicologia della Gestalt si fa risalire al 1912, quando Wertheimer scrisse un articolo in cui identificava un processo percettivo unitario – da lui chiamato fattore “phi” – grazie al quale i singoli stimoli verrebbero integrati, nel soggetto, in una forma dotata di continuità. Per l’organismo che percepisce, l’insieme significativo è lo stimolo (378). Da qui la legge gestaltica, enunciata da Koffka nel 1935, per cui il tutto viene prima delle parti (151). Per gli psicologi della Gestalt la figura organizzata, significativa, diventava pertanto l’unità di misura della percezione. Wertheimer individuò una serie quasi infinita di “leggi” sul funzionamento delle gestalt percettive, la più importante delle quali è la legge della pregnanza: ciò che viene percepito contiene una forma organizzata che è la migliore possibile, in date condizioni ambientali.
Il contributo di Kurt Lewin portò la psicologia della Gestalt fuori dal laboratorio, nella realtà molto più complessa della vita quotidiana, che egli considerò come “il campo” in cui l’individuo si muove per raggiungere i propri obiettivi. Il campo percettivo è per Lewin una sorta di sfondo, di mappa mentale da cui emergono di volta in volta figure nuove, che poi ritornano nello sfondo per lasciare il posto ad altre figure, percepite dall’organismo come rilevanti per il raggiungimento dei propri scopi. Una ulteriore elaborazione della psicologia della Gestalt dal punto di vista dello sviluppo di una teoria della personalità e della psicoterapia fu il contributo del neurologo Kurt Goldstein. L’unico impulso o istinto di cui si possa parlare nel comportamento umano è l’impulso a interagire con l’ambiente e a organizzare quella interazione in schemi. Goldstein nel 1939 (120) chiamò impulso all’auto-attualizzazione questo unico vero impulso, che organizza tutti gli altri pseudoimpulsi e comportamenti dell’organismo in modo gerarchico. (HCC ITALY)
Fondatori della psicologia della Gestalt (XX secolo, Germania) furono considerati Max Wertheimer, Wolfgang Köhler e Kurt Koffka che presero distanza dalla precedente tendenza dello strutturalismo. Gli strutturalisti consideravano la percezione come una somma di elementi ed attività distinte e separate. I seguaci della Gestalt, invece, sostenevano che la percezione non è data dalla combinazione degli elementi distinti, ma consiste nella risposta immediata a schemi complessi colti nel loro insieme (122). Secondo gli psicologi della Gestalt l’intero è differente dalla somma delle parti, ovvero, l’intero è composto da parti diverse, e questa diversità è il risultato del modo in cui le varie parti sono reciprocamente organizzate. La parola Gestalt in tedesco significa «un tutto organizzato», di conseguenza la vera unità fondamentale per lo studio delle percezioni sta appunto nella Gestalt dello stimolo sensoriale, non dei suoi singoli elementi. Secondo la teoria della Gestalt il sistema nervoso dell’uomo, tramite meccanismi innati, è predisposto a mettere insieme gli elementi costitutivi degli stimoli sensoriali sulla base dei principi di organizzazione percettiva: vicinanza, somiglianza, continuità, movimento comune, chiusura, armonia di forma (122). Le parti del campo che, attraverso le leggi sopra descritte, si costituiscono in una forma ben precisa diventano figura significativa su uno sfondo amorfo e indefinito. Può accadere, inoltre, che anche lo sfondo può avere gli stessi requisiti, la strutturazione figura/sfondo diventa instabile e la percezione può modificarsi in modo alternativo: diventa sfondo ciò che era figura e viceversa. Ciò diventa palese nelle figure ambigue o reversibili (5). La dinamica figura/sfondo per cui lo sfondo diventa figura e viceversa non è legato solo a fattori spaziali, ma anche a fattori temporali – fissare una figura a lungo termine produce una modificazione da figura a sfondo (hcc Kairos)
La parola tedesca Gestalt (vedi) significa ‘forma’, intesa come un insieme costituito dai suoi elementi e dagli ‘effetti’ prodotti dalla loro composizione. Le radici affondano nel pensiero di Brentano, il quale teorizza il fenomeno primario e secondario e l’intenzionalità della percezione: ne è considerato poi il precursore effettivo C. von Ehrenfels, che per dimostrare la non identità fra intero e somma delle parti osserva come uno stesso gruppo di note messe in posizioni differenti compongano un’altra melodia. Wertheimer mette l’accento sulla tendenza a percepire intenzionalmente insiemi coerenti: chi percepisce si dirige verso quegli oggetti che sono congrui all’emergenza dei bisogni dell’organismo nel momento in cui si manifestano, mentre il resto rimane sullo sfondo (vedi Figura/sfondo). Nel pensiero di K.Koffka il concetto di totalità acquista un significato pregnante: il mondo è ‘quale ci appare’ nell’atto della percezione, e l’apparenza non è più contrapposta alla realtà. W. Koehler introdusse il concetto di insight (vedi), l’improvvisa consapevolezza di un nuovo modo di capire la situazione in corso: l’insight è la scoperta di nuove relazioni tra gli elementi, diverse da quelle che si vedevano prima. Gli psicologi della Gestalt sottolineano come i dati sensoriali non vengano assunti dall’organismo semplicemente secondo un grafico di aumento progressivo costante, ma con una curva ciclicamente restrittiva dei dati che l’organismo può accogliere. I dati scelti sono quelli richiesti per il completamento di una Gestalt, vale a dire di un insieme che ha un determinato senso per l’organismo. Un punto fondamentale nella Psicologia della Gestalt è la teoria del campo di Lewin, che legge il comportamento in relazione alla situazione in cui si verifica: le ragioni non vengono ricercate nel passato, ma mettendo l’attenzione sui rapporti presenti tra la persona e l’ambiente (IGF)
PRESENTE (QUI ED ORA)
Il ‘Qui ed Ora’ rappresenta l’unica possibilità di esserCi. L’uomo non ha altre possibilità: dove sta il mio corpo, lì io abito. Il qui e ora rappresenta un ponte tra storia e progetto, tra rimpianto e speranza. Il qui e ora rimanda immediatamente al corpo, ai sensi, alle emozioni, alle sensazioni… Consapevolezza, presenza, esserCi, corpo sono strettamente interconnessi.
Il ‘Qui ed Ora’ descrive il processo in corso nell’azione e nell’interazione. E’ lo spazio-tempo del cambiamento. Noi viviamo nel qui ed ora, ma possiamo anticipare il futuro con l’immaginazione e ricordare il passato con la memoria. Stare nel presente, in un’ottica gestaltica, significa abitare consapevolmente il momento della trasformazione, accogliendo e orientando il flusso di sensazioni-emozioni-pensieri che si sviluppa nel ciclo di contatto in vista della soddisfazione del bisogno (222, 225, 348) (ASPIC)
E’ un dato di fatto: esistiamo nel presente. Quantomeno nell’esperienza di interrogarci su noi stessi e sul nostro esser-ci (da sein) in relazione al mondo. «Quanto esiste – ricorda Laura Perls (217, pg. 78) – esiste qui ed ora; il passato esiste ora come memoria, nostalgia, rimpianto, risentimento, fantasia, leggenda o storia. Il futuro come anticipazione, pianificazione, saggio, aspettativa e speranza o timore o disperazione. La terapia della Gestalt lo assume tale e quale si presenta nel qui ed ora, non per come è stato o come potrebbe arrivare ad essere. E una focalizzazione fenomenologico-esistenziale nella misura in cui è esperienza». Radicarci nel qui-ed-ora rappresenta quindi una riappropriazione della nostra storia, una assunzione responsabile della propria soggettività e del proprio destino (unicuique faber fortunae sue) al di là delle proiezioni (spesso di comodo) con le quali amiamo percepirci come vittime di voleri altri. Per dirla con Perls (216) “Per me nulla esiste eccetto l’adesso. Ora-esperienza-consapevolezza-realtà. Il passato non è più, il futuro non è ancora”. Di qui l’uso del presente come condizione proposta anche in psicoterapia per assumerci i propri vissuti, esplorare l’ambiente e correre il rischio di adottare pattern comportamentali diversi da quelli instauratisi nel passato con automatismi ormai inattuali (217, 219, 387) (CSTG)
“[…] il qui-e-ora costituisce la dimensione spazio-temporale attraverso cui la persona psicologicamente sana si pone in contatto con sé stessa e con il mondo. Dal punto di vista fenomenologico, tale dimensione rimanda all’esperienza del proprio corpo, delle proprie sensazioni, dei propri sentimenti, della propria realtà. Attraverso il «continuum di consapevolezza», rimanendo in contatto con ciò che qui-e-ora sta accadendo, la situazione irrisolta o il bisogno inappagato vengono alla luce con forza per essere affrontati. L’istanza aperta, che emerge alla superficie del qui-e-ora, trova espressione nei movimenti spontanei del corpo, nella voce, nei comportamenti non verbali. Porre attenzione all’esperienza, che nel presente sta fluendo, permette di sostenere il processo di consapevolezza del paziente, di delinearne l’intenzionalità e l’orientamento nel «campo», di integrare i conflitti polari, di ricomporre l’unità fra sentire e agire” (348, p. 518; 338, p. 131). (HCC ITALY)
VOCE TRATTA, PER GENTILE CONCESSIONE DEI CURATORI, DA NARDONE G. E SALVINI A. (A CURA DI) DIZIONARIO INTERNAZIONALE DI PSICOTERAPIA, GARZANTI EDITORE, MILANO, 2013
E’ una modalità di stare al mondo, un’attitudine a vivere nel presente. Significa considerare come unica realtà concreta e sperimentabile quella che stiamo vivendo in questo momento. Rifacendosi al pensiero orientale, in particolare a quello buddhista, prima F. Perls e poi C. Naranjo, lo hanno considerato un principio basico della terapia della Gestalt. Stare nel qui e ora comporta l’essere presente nel fluire continuo dell’esperienza, lasciando andare i ricordi del passato, le pianificazioni del futuro e l’illusione che ogni cosa possa essere controllata dalla nostra mente. Questo implica l’entrare in contatto con l’incertezza e la paura dell’ignoto ma, al tempo stesso, apre a nuove consapevolezze. Ciò che esiste è solo il presente, momento per momento, la realtà che sperimentiamo attraverso i sensi, prima ancora che intervengano valutazioni e giudizi. I sensi veicolano le informazioni dell’ambiente alla mente che le elabora, creando un’immagine interna di esse. Le sensazioni, via via che cambiano, attivano stati emozionali e pensieri congruenti. Nella presenza viviamo la pienezza (IGAT)
Nella psicoterapia della Gestalt, quantità minima di tempo necessaria perché un’esperienza possa acquistare senso sul piano esistenziale (momento presente). L’approccio esistenziale si basa sulla considerazione che esistere significa essere nel tempo, ed esserci ‘con senso’: il tempo nella psicoterapia della Gestalt è il tema centrale dell’esistenza umana. Passato, presente e futuro sono aree molto differenti fra loro: se il passato non è più e il futuro non è ancora, il presente, il qui-e-ora, è l’unico momento in cui si può influire sulla direzione della propria vita, è il ponte fra il passato e il futuro, fra la motivazione e lo scopo, ed è l’unico momento reale nell’esperienza. Il presente è il solo tempo dove ha campo d’azione il libero arbitrio, quella facoltà secondo la quale la persona può decidere, perseguendo una direzione e rinunciando alle altre. Scorrendo incessantemente fra passato e futuro, il presente sembra non avere dimensioni misurabili: malgrado questo è l’unico tempo reale, il tempo degli accadimenti e l’origine di ogni senso e valore. È nel momento presente che si riconoscono le emozioni e le sensazioni, le quali fuggono via col trascorrere del tempo: è al qui-e-ora che la pratica clinica della Gestalt riporta l’attenzione per operare trasformazioni terapeutiche che aprano porte a possibilità future (IGF)
Accezione con la quale si attribuisce importanza assoluta al contatto pieno con l’esperienza nel luogo e nel momento in cui essa avviene. Questo genere di contatto focalizza le energie dell’organismo condensandole tutte in un unico istante accrescendo la percezione della realtà: “ciò che sono è tanto reale quanto più posso osservarlo e esperirlo nel medesimo istante e luogo in cui lo sto vivendo” . La necessità di abbandonare il contatto con l’esperienza che proviene da contesti e momenti differenti da quello attuale (ad esempio ricordi del passato o proiezioni nel futuro), in cui la si sta vivendo, consente all’organismo di fare sì che la realtà non sia interferita da costruzioni altre offerte dai meccanismi di resistenza al contatto (216, 278). L’efficacia della focalizzazione sul Qui ed Ora ha una fondatezza scientifica e non soltanto suggestiva. Spazio e tempo in fisica sono dimensioni curve il che vuol dire che sono soggette ad una ciclicità in costante movimento (un oggetto in movimento per quanto possa distanziarsi dal suo punto di partenza tenderà sempre a ritornarvi indipendentemente da quanto tempo impiegherà per farlo e dalla distanza che dovrà percorrere) (279); per cui fermare le energie nel Qui ed Ora, tende a rallentare, fino al limite della interruzione, la curvatura spazio-temporale consentendo all’organismo che è immerso in questo processo, di percepire in un solo istante e in modo pieno la reale natura di ciò che prova e di ciò che egli è nella contemporaneità dell’esperienza che sta vivendo (200). Lavorare quindi sul Qui ed Ora intensifica il transito nella dimensione del confine-contatto (216) (SIPGI)
PRINCIPIO DI RUBIN E FIGURE AMBIGUE
Nell’ambito della Psicologia della Forma è noto come allo stesso Rubin non sfugge l’importanza dell’esperienza passata dell’osservatore nell’investire di connotati affettivi gli elementi del campo osservato; di qui la tendenza non causale a privilegiare l’uno o l’altro elemento come focus dell’attenzione. In questo percorso il coinvolgimento dei differenti sensi è globale e simultaneo, non c’è un unico senso coinvolto e poiché la percezione si svolge in un contesto materiale di cui abbiamo acquisito esperienza, emergono proprietà di costanza percettiva che sono: Costanza di forma, Costanza di grandezza, Costanza di luminosità, Costanza cromatica. In mezzo a queste costanti il contatto con lo sfondo deve restare aperto e fluido per evitare l’irrigidimento su figure che perdono di significato evolutivo e consentire al contrario l’emergere dal fondo stesso di realtà che, in un flusso continuo di ridistribuzione energetica, vanno successivamente acquisendo significato. Utile, per avvalorare tali concetti, risulta il ricorso alle cosiddette figure ambigue, come quelle di seguito riportate, nelle quali le risposte diversificate degli osservatori ci permettono di individuare priorità percettive.
Un altro interessante esperimento é quello con il cubo di Necker, che modifica continuamente alternando il senso di orientamento degli spigoli frontali e posteriori. Questo fenomeno fu raffrontato nella psicoterapia della Gestalt da Perls, il quale utilizzó tecniche e strumenti che favorissero nel paziente lo sviluppo di utili potenzialità senza mai dimenticare che l’ambiguità è sempre presente nel pensiero, nella lingua, nella sessualità, nell’arte, nella musica. La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer é un tipico esempio di emozioni contraddittorie: innocente eppure provocante, ingenua ma eccitante (28, 147, 10, 385, 54, 53) (ASPIC-CSTG)
In Psicoterapia della Gestalt il concetto di ambiguità si riferisce al soggetto percipiente più che supporre particolari qualità inerenti all’oggetto. E’ vero che Rubin studia figure la cui reversibilità è data da contorni delimitati da tratti comuni, ma la visione dell’una o dell’altra immagine dipende da come la persona articola la relazione figura-sfondo. L’oggetto, e così tutta la realtà, non è più un dato ma un fenomeno che assume rilevanza nella vita degli individui attraverso l’effetto sensitivo ed emotivo che in loro produce evocando elementi personali della storia di ognuno secondo una specifica dinamica figura-sfondo dotata di senso nel qui ed ora (IGF)
PROCESSO
Processo come integrazione – L’Approccio Gestaltico Integrato intende l’essere come un’unità olistica ed opera al di là dei dualismi mente/emozioni, ragione/sentimenti.
Il processo terapeutico che si sviluppa all’interno del setting, consente l’unificazione di un insieme di fenomeni e di vissuti. Il bisogno emotivo percepito a livello somatico, codificato dall’emisfero destro, viene accolto agito e integrato anche a livello corticale sinistro. La comunicazione così attivata, tra gli emisferi cerebrali per mezzo del corpo calloso, ne favorisce la processualità e la presa di consapevolezza, consentendo la riorganizzazione del Sé (105, 87) (ASPIC)
Attraverso il lavoro con il processo corporeo, esploriamo tramite il respiro, il mondo delle sensazioni ed emozioni interne sottese. Sfogliamo le immagini che via via emergono da tali esperienze e le riconnettiamo attraverso delle rappresentazioni (scultura corporea, sedia vuota etc) al proprio sé (149, 69, 48, 49, 171, 172, 176, 276) (CSP/IGA)
Se per gestalt si intende la figura-struttura nel suo aspetto statico, per gestaltung si intende il processo morfogenetico di progressiva configurazione della gestalt emergente, evidenziandone l’aspetto dinamico. Isomorficamente, si riscontra quotidianamente nel passaggio sintropico da elementi inorganici più semplici a più complessi, come avviene ad esempio nell’evoluzione di una specie animale, di un pensiero o di un movimento culturale.
Due sono i momenti che caratterizzano il processo morfogenetico: il momento anamorfico, in cui una realtà emerge in figura da uno sfondo indifferenziato e il momento catamorfico in cui gli elementi di differenziazione si disgregano e si dissolvono nello sfondo per ritornare ad uno stato quiescente. “La qualità più importante ed interessante di una gestalt – dice Perls – è la sua dinamica e la necessità imperiosa che essa ha di chiudersi e di completarsi, permettendo così ad una nuova gestalt di emergere, determinando il sano flusso ininterrotto dell’esperienza. L’organismo si sforza di mantenere un equilibrio, continuamente disturbato dai sui stessi bisogni, ristabilendolo attraverso il loro appagamento e la loro progressiva eliminazione, tenendo fede al principio di autoregolazione organismica e permettendo all’individuo di essere se stesso”.
La persona sana, che non subisce continue interferenze per situazioni irrisolte, dispone quindi di tutte le sue energie per entrare autenticamente in contatto con l’ambiente in cui si trova, nel continuo fluire del tempo, potendo realizzare con esso una soddisfacente osmosi. Un flusso di scambi soddisfacenti con l’ambiente è ostacolato, invece, nell’individuo nevrotico che mostra un frequente ripresentarsi di situazioni di blocco e di auto-interferenza dovute alle gestalten, definite anche gestalt incompiute o unfinished business (218, 387) (CSTG)
Processo è opposto di oggetto: la conoscenza degli oggetti attraverso la misurazione quantitativa è infatti un fatto naturale, mentre la percezione dei processi richiede un’educazione, o forse una rieducazione. Non ha grande importanza agli effetti pratici che si tratti di educazione o rieducazione, però di fatto per riuscire a percepire i processi è utile un’esegesi. Per esempio siamo così poco abituati a guardare le persone come processi che le vediamo in genere attraverso misure antropometriche: quello è alto così, largo così, ha gli occhi di questo colore, il naso fatto così, ecc. Misurata una persona che si sa di questa persona? Per conoscere una persona, come per conoscere qualunque oggetto d’arte, e in questo senso si può dire che una persona è un oggetto d’arte, bisogna sentire che effetto fa, fare attenzione cioè ai processi che quella induce (IGF)
PROIEZIONE
La proiezione è spesso un’operazione con la quale il soggetto espelle (ritrovandoli poi nell’altro) i propri sentimenti, desideri, qualità che disconosce o rifiuta. Questo atto proiettivo è il risultato della collusione simultanea tra un evento, attuale (vissuto nel Qui e Ora) ed un evento traumatico (ferita aperta del passato somigliante). La proiezione è spesso una interpretazione contaminata dal passato e rievocata da un evento attuale. Poiché è inconscia, passa inosservata. Il transfert è generalmente una risposta susseguente ad una proiezione attributiva ed include una identificazione: è meglio considerarlo un alleato per la terapia piuttosto. che una resistenza. Proiezione e transfert sono elementi utili per evitare lo stress e lo spavento della novità del presente emergente. Riprodurre l’antico attaccamento diventa un mezzo per non entrare in contatto con la relazione attuale presente ed occultare l’incertezza. L’esperienza del nuovo è nutriente, a condizione che si operi un adattamento creativo, altrimenti potrebbe essere vissuto come fonte di ripetizione, noia, paura, fastidio e sofferenza (94) (ASPIC)
La proiezione è una delle resistenze classiche della Gestalt nella fase del contatto dove l’organismo sposta la propria attenzione fuori da sé attribuendo all’altro ciò che sente. L’eccitazione perde l’orientamento e così diventa insopportabile e spinge all’ azione che sarà inappropriata. Il paziente agisce per ridurre la tensione e non per arrivare ad una meta (219, 377, 149, 39) (CSP/IGA)
Attitudine dell’individuo a proiettare parti di sé (mondo interno) sull’ambiente (mondo esterno) (386). Perls (214) la definisce “la tendenza a rendere l’ambiente responsabile di tutto ciò che si origina nel sé”. Si possono proiettare parti di sé, emozioni, idee che si considera inaccettabili e che non si riconoscono come proprie. Chi proietta si trova così a vivere in una condizione passiva in cui si sente vittima delle situazioni.
“Nella proiezione, pertanto, spostiamo il confine tra noi e il resto del mondo un po’ troppo a nostro favore: cioè tendiamo a disconoscere e rinnegare quegli aspetti della nostra personalità che troviamo difficili, offensivi, sgradevoli. E, tra parentesi, sono i nostri introietti che ci fanno provare di solito quei sentimenti di autodisprezzo e di autoalienazione che producono la proiezione” (214, pg.43). Tali introietti sono chiaramente disfunzionali perché non permettono il contatto con quelle parti, quelle emozioni, quelle idee che meno ci piacciono e vorremmo non facessero parte di noi.
Il lavoro terapeutico consiste nel poter integrare le proprie proiezioni: se la proiezione riguarda qualcosa che opprime, si può proporre di identificarsi con quella situazione; se la proiezione riguarda gli altri, si può far ripetere le attribuzioni altrui come se fossero proprie. I questi casi può essere utile la tecnica della frase ripetuta per giungere ad una maggiore consapevolezza.
In termini positivi, la proiezione permette agli individui di sviluppare empatia, di mettersi nei panni degli altri e di prevederne il comportamento (86, 214, 219, 386, 387) (CSTG)
“Dicendo proiezione (in inglese Projection) vogliamo intendere tutte le manifestazioni del proprio comportamento (caratteristiche, atteggiamenti, sentimenti, etc.) che, pur appartenendo per intero alla propria personalità reale, non vengono mai sperimentate come tali; esse vengono anzi attribuite agli oggetti o alle persone che fanno parte dell’ambiente, e poi sperimentate come qualcosa che viene diretto da parte loro verso di sé, piuttosto che viceversa” (219, p. 482). Nella recente prospettiva dello sviluppo polifonico dei domini, teorizzata da Margherita Spagnuolo Lobb, “la modalità di contatto del proiettare, attraverso la quale il bambino è in grado di ‘tuffarsi nel mondo’, affidando la sua energia all’altro e all’ambiente” (340, p. 44) è considerata un dominio. Nel proiettare il “bambino è curioso di tutto e usa la propria energia per conoscere il mondo, apre i cassetti e qualunque cosa sia chiusa, proiettando il sé dove non c’è e dove potrebbe essere. […] Qualunque cosa gli si dica viene restituita all’altro. L’immaginazione, il coraggio della scoperta, l’uso del corpo come promotore di cambiamento nel contatto con l’ambiente, la danza come movimento espressivo nell’ambiente – queste sono le capacità che l’organismo sviluppa durante tutta la vita attraverso questo dominio, e che esprimono la modalità di affidare il sé all’altro. […] Il rischio, in condizioni di desensibilizzazione del confine di contatto, è che la proiezione possa avvenire come tentativo di gestire l’ansia senza percepire l’altro, generando così esperienze paranoiche (l’altro nel quale io mi ‘lancio’ è incapace o cattivo)” (340, p. 44). “Per evitare l’ansia, l’organismo stabilisce un contatto attraverso questo stile di interruzione della spontaneità: lo sviluppo dell’eccitazione è interrotto disappropriandosene e attribuendola all’ambiente” (cfr. 339, p. 84) (HCC ITALY)
Quando l’Organismo (O.) comincia ad identificare il bisogno, avverte contestualmente un crescendo dell’eccitazione e dell’energia necessarie per mettersi in movimento verso l’Ambiente (A.). Aumenta l’ampiezza del respiro, cresce l’energia, percepisce il corpo attivato. Sentire di avere a disposizione tanta energia intensifica la paura di non sapere come andrà a finire. Iniziano i movimenti direzionati verso il confine di contatto. Se l’O. è sostenuto, si fida della propria energia e va avanti. Senza il sostegno specifico di questa fase (sentirsi contenuti da una presenza anche corporea rassicurante), di fronte all’eccitazione l’O. si sentirà troppo piccolo: come se il suo schema corporeo si fosse rimpicciolito e avesse arretrato i propri confini. A questo punto l’eccitazione viene avvertita come insopportabile e l’O. non la riconosce come propria, ma la attribuisce all’A. Le sue eventuali azioni risultano inappropriate, perché finalizzate a scaricare la tensione e non a raggiungere una meta. L’O. si ostina a cercare fuori di sé, nell’A., la fonte dell’energia che non riesce a sentire come propria. Questo lo rende provocatorio, quasi a confermare che l’emozione è stata causata dall’esterno. «Nella proiezione, il nevrotico è convinto dell’evidenza sensoriale laddove il Sé che si concentra sente una lacuna dell’esperienza» (219, p. 267). La contrazione oculare (occhi offuscati o spalancati, fissi e vuoti nello stesso tempo) è un tipico segno corporeo di tale interruzione del ciclo di contatto (interruzione come proiettare) (hcc Kairos)
Proiettare comporta “attribuire agli altri ciò che ci riguarda” (85). In pratica, impulsi, sentimenti ed esperienze interne vengono spostati nel mondo esterno. Chi proietta non riconosce aspetti di sé, che di fatto rifiuta, trasferendoli su altri. D. Shapiro, partendo dal legame esistente tra modalità paranoidea e proiezione, ritiene questa operazione un meccanismo mentale centrale per la nostra comprensione della patologia e dei sintomi paranoidei.
Secondo Perls il nostro potenziale, negato, respinto e dissociato, è ancora disponibile e possiamo riappropriarcene reintegrando le proiezioni come, ad esempio, nel suo lavoro sul sogno.
- Naranjo (205) individua la proiezione come meccanismo di difesa dominante nell’enneatipo sei, o paura. Questo carattere, che lo stesso autore considera paranoide, non riconosce che è lui stesso l’artefice delle proprie accuse e immagina che l’ostilità punitiva provenga da un esterno critico, giudicante e minaccioso. La autoaccusa è una sorta di strategia per non incorrere in problemi con l’autorità. Il tipo sei si è ingraziato il nemico diventando il nemico di se stesso.
La proiezione, infine, può essere intesa come un’operazione utilizzata per evitare un’immagine negativa di sé e il conseguente senso di colpa (IGAT)
PSICOLOGIA DELLA GESTALT
Corrente della psicologia contemporanea le cui ricerche si sono incentrate sulla percezione e l’esperienza soggettiva, che secondo questo approccio si organizzano secondo il principio olistico per cui il “tutto” che si viene a formare é qualitativamente differente dalla somma delle parti che lo costituiscono. La mente quindi non si limita a ricevere informazioni dagli organi di senso, ma organizza tali informazioni in modo attivo (ristrutturazione intuitiva – insight), sulla base di principi tendenzialmente innati, secondo le leggi dell’organizzazione percettiva. Tutte le immagini sensoriali sono perciò percepite come un campo di forze in cui gli elementi si condizionano e interagiscono a vicenda creando un fenomeno. Nell’ottica fenomenologica oggetto di studio sono i dati così come essi si presentano direttamente al soggetto, senza mediazioni intellettuali. Ogni atto di visione è quindi sempre una scelta, ossia l’attribuzione di particolare importanza a certi stimoli che emergono in figura trascurandone altri che quindi vanno sullo sfondo (86, 125, 153, 219) (ASPIC)
La Gestaltpsychologie o Scuola di Berlino si inserisce tra le scuole strutturaliste della percezione, di cui rappresenta sicuramente quella che ebbe il maggiore influsso sullo sviluppo della psicologia.
La nascita della psicologia della Gestalt si fa risalire al 1912, quando Wertheimer scrisse un articolo in cui identificava un processo percettivo unitario – da lui chiamato fattore “phi” – grazie al quale i singoli stimoli verrebbero integrati, nel soggetto, in una forma dotata di continuità. Per l’organismo che percepisce, l’insieme significativo è lo stimolo (378). Da qui la legge gestaltica, enunciata da Koffka nel 1935, per cui il tutto viene prima delle parti (151). Per gli psicologi della Gestalt la figura organizzata, significativa, diventava pertanto l’unità di misura della percezione. Wertheimer individuò una serie quasi infinita di “leggi” sul funzionamento delle gestalt percettive, la più importante delle quali è la legge della pregnanza: ciò che viene percepito contiene una forma organizzata che è la migliore possibile, in date condizioni ambientali.
Il contributo di Kurt Lewin portò la psicologia della Gestalt fuori dal laboratorio, nella realtà molto più complessa della vita quotidiana, che egli considerò come “il campo” in cui l’individuo si muove per raggiungere i propri obiettivi. Il campo percettivo è per Lewin una sorta di sfondo, di mappa mentale da cui emergono di volta in volta figure nuove, che poi ritornano nello sfondo per lasciare il posto ad altre figure, percepite dall’organismo come rilevanti per il raggiungimento dei propri scopi. Una ulteriore elaborazione della psicologia della Gestalt dal punto di vista dello sviluppo di una teoria della personalità e della psicoterapia fu il contributo del neurologo Kurt Goldstein. L’unico impulso o istinto di cui si possa parlare nel comportamento umano è l’impulso a interagire con l’ambiente e a organizzare quella interazione in schemi. Goldstein nel 1939 (120) chiamò impulso all’auto-attualizzazione questo unico vero impulso, che organizza tutti gli altri pseudoimpulsi e comportamenti dell’organismo in modo gerarchico. (HCC ITALY)
Fondatori della psicologia della Gestalt (XX secolo, Germania) furono considerati Max Wertheimer, Wolfgang Köhler e Kurt Koffka che presero distanza dalla precedente tendenza dello strutturalismo. Gli strutturalisti consideravano la percezione come una somma di elementi ed attività distinte e separate. I seguaci della Gestalt, invece, sostenevano che la percezione non è data dalla combinazione degli elementi distinti, ma consiste nella risposta immediata a schemi complessi colti nel loro insieme (122). Secondo gli psicologi della Gestalt l’intero è differente dalla somma delle parti, ovvero, l’intero è composto da parti diverse, e questa diversità è il risultato del modo in cui le varie parti sono reciprocamente organizzate. La parola Gestalt in tedesco significa «un tutto organizzato», di conseguenza la vera unità fondamentale per lo studio delle percezioni sta appunto nella Gestalt dello stimolo sensoriale, non dei suoi singoli elementi. Secondo la teoria della Gestalt il sistema nervoso dell’uomo, tramite meccanismi innati, è predisposto a mettere insieme gli elementi costitutivi degli stimoli sensoriali sulla base dei principi di organizzazione percettiva: vicinanza, somiglianza, continuità, movimento comune, chiusura, armonia di forma (122). Le parti del campo che, attraverso le leggi sopra descritte, si costituiscono in una forma ben precisa diventano figura significativa su uno sfondo amorfo e indefinito. Può accadere, inoltre, che anche lo sfondo può avere gli stessi requisiti, la strutturazione figura/sfondo diventa instabile e la percezione può modificarsi in modo alternativo: diventa sfondo ciò che era figura e viceversa. Ciò diventa palese nelle figure ambigue o reversibili (5). La dinamica figura/sfondo per cui lo sfondo diventa figura e viceversa non è legato solo a fattori spaziali, ma anche a fattori temporali – fissare una figura a lungo termine produce una modificazione da figura a sfondo (hcc Kairos)
La parola tedesca Gestalt (vedi) significa ‘forma’, intesa come un insieme costituito dai suoi elementi e dagli ‘effetti’ prodotti dalla loro composizione. Le radici affondano nel pensiero di Brentano, il quale teorizza il fenomeno primario e secondario e l’intenzionalità della percezione: ne è considerato poi il precursore effettivo C. von Ehrenfels, che per dimostrare la non identità fra intero e somma delle parti osserva come uno stesso gruppo di note messe in posizioni differenti compongano un’altra melodia. Wertheimer mette l’accento sulla tendenza a percepire intenzionalmente insiemi coerenti: chi percepisce si dirige verso quegli oggetti che sono congrui all’emergenza dei bisogni dell’organismo nel momento in cui si manifestano, mentre il resto rimane sullo sfondo (vedi Figura/sfondo). Nel pensiero di K.Koffka il concetto di totalità acquista un significato pregnante: il mondo è ‘quale ci appare’ nell’atto della percezione, e l’apparenza non è più contrapposta alla realtà. W. Koehler introdusse il concetto di insight (vedi), l’improvvisa consapevolezza di un nuovo modo di capire la situazione in corso: l’insight è la scoperta di nuove relazioni tra gli elementi, diverse da quelle che si vedevano prima. Gli psicologi della Gestalt sottolineano come i dati sensoriali non vengano assunti dall’organismo semplicemente secondo un grafico di aumento progressivo costante, ma con una curva ciclicamente restrittiva dei dati che l’organismo può accogliere. I dati scelti sono quelli richiesti per il completamento di una Gestalt, vale a dire di un insieme che ha un determinato senso per l’organismo. Un punto fondamentale nella Psicologia della Gestalt è la teoria del campo di Lewin, che legge il comportamento in relazione alla situazione in cui si verifica: le ragioni non vengono ricercate nel passato, ma mettendo l’attenzione sui rapporti presenti tra la persona e l’ambiente (IGF)
PSICOTERAPIA DELLA GESTALT
Terapia psicologica esistenziale relazionale la cui metodologia e fenomenologia si riferiscono all’esperienza immediata (qui e ora) e alla sensazione emergente che diventando figura, lascia andare sullo sfondo tutto il resto, portando la persona alla consapevolezza. Oltre a dare parole alle esperienze e consapevolezze che il cliente viene via via conseguendo nell’incontro relazionale con il terapeuta, viene dato spazio, attraverso le tecniche, alla sperimentazione diretta per aiutare la persona a sperimentare il reale piuttosto che ad immaginarlo, in una prospettiva ecologica ed unificatrice della Persona che consente di uscire dalla rigidità delle spiegazioni causali, portando l’attenzione sul “come” piuttosto che sul “perché”. Il cambiamento e la crescita sono quindi resi possibili dall’autoregolazione organismica del contatto tra l’individuo e l’ambiente e tra l’individuo e la consapevolezza dei suoi bisogni attraverso il ciclo del contatto gestaltico (96, 213, 216, 214, 215) (ASPIC)
Alla base del modello di psicoterapia, i cui fondamenti sono contenuti nell’opera di F.Perls, R.F.Hefferline e P.Goodman (1951), Gestalt Therapy: Excitement and Growth in the Human Personality, c’è la convinzione che ogni esperienza non può che avvenire al confine del contatto tra un organismo animale umano e il suo ambiente. E proprio ciò che avviene in questo confine che è disponibile all’osservazione scientifica e all’eventuale intervento terapeutico. Il modo in cui l’individuo fa (o non fa) contatto con il proprio ambiente descrive la sua funzionalità psichica. L’adattamento creativo è il modo tipico di funzionamento del sé. Esso non risponde a un modello univoco di salute (75), ma consente la modulazione individuale su parametri di autorealizzazione e di accoglienza della novità portata dall’ambiente/altro. Nella psicoterapia della Gestalt, quindi, la crescita di una persona verso l’autonomia coincide con la sua capacità di decidersi per l’incontro con l’altro, con il Tu.
Su queste basi, è possibile creare una psicopatologia specificamente gestaltica: un’esplorazione della sofferenza clinica capace di collocare la sintomatologia espressa dall’individuo nel campo fenomenologico e relazionale dal quale emerge. Il sintomo è il cristallizzarsi della sofferenza attraversata dal paziente nella propria storia relazionale: il campo di sofferenza si attualizza e prende vita nel qui e ora dell’incontro terapeutico, è co-creato dal paziente e dal terapeuta, è percepibile esteticamente (cioè attraverso i sensi) e tende ad un nuovo contatto nel quale il dolore si trasforma in incontro e in bellezza emergente. In questa prospettiva l’oggetto della diagnosi non è più il paziente, ma ciò che accade al confine di contatto (il farsi della Gestaltung) e il terapeuta, piuttosto che tendere a cambiare il paziente, modula la propria presenza al confine di contatto in modo da modificare il campo che insieme al paziente sta co-creando (cfr. 352) (HCC ITALY)
La Gestalt non è mai stata un modello tecnicistico: per garantire però la sua sopravvivenza, è necessario collocarla in una corrente di scienza della conoscenza: mentre alcune scuole utilizzano un back ground pragmatista, altre utilizzano l’approccio fenomenologico esistenziale come principale paradigma di riferimento. F. Perls ha sostituito alla visione psicanalitica l’esistenzialismo, la fenomenologia e la psicologia della Gestalt, a cui appartengono, oltre all’intenzionalità della percezione, il principio che l’intero non è uguale alla somma delle parti, la teoria della figura-sfondo e la teoria del campo. L’io viene qui considerato uno stile comportamentale, e l’operazione terapeutica è il passaggio da uno stato di blocco a uno stato di flusso. In un’ottica esistenzialista la volontà è il limite estremo dell’indagine psicologica: questa posizione è una colonna portante della Gestalt. Della filosofia esistenzialista Perls non accoglie la concezione del dolore come verità assoluta: il dolore è un campanello d’allarme, che avverte l’organismo della necessità di intervenire sulla situazione in corso. La percezione è considerata intenzionale, cioè si percepisce quello di cui si ha bisogno: così Perls spiega le cosiddette fissazioni nevrotiche, rappresentate come Gestalt incompiute che riemergono per raggiungere una conclusione. Nella Gestalt è l’espressione il cavallo di battaglia: ci si può però esprimere funzionalmente, per capire, o lo si può fare esistenzialmente, per vivere, e in questo si separano i cammini delle varie correnti. L’esprimersi è certo funzionale, ma è soprattutto vita, un mistero che non richiede di essere risolto, ma contemplato. Sul piano tecnico, l’approccio fenomenologico esistenziale si appoggia ai capisaldi della responsabilità e del fenomeno secondario, cioè del sentire. Cosa il paziente vuol fare qui-e-ora è il leitmotiv della seduta nella prassi della PTG (IGF)
RELAZIONE
‘In principio è la relazione’; ‘Io non sono se non con gli altri’; ‘l’Io senza il tu è impossibile’; ‘Essere-nel-mondo è in pari tempo un essere-con-gli-altri’. La fenomenologia sostituisce al dualismo anima-corpo, quell’originaria correlazione corpo-mondo per cui noi ci sentiamo al mondo non come corpi fisici o estesi, definiti da Husserl, Korper, ma come corpi viventi, Leib, che si immettono in quella corrente di desiderio che produce l’azione e fa del corpo non l’ostacolo da superare, ma il veicolo del mondo. Husserl (1936) scrive: ‘tra i corpi di questa natura trovo il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè come l’unico a non essere mero corpo fisico, ma corpo vivente’. Egli mette cioè l’accento sul corpo-che-sono, non sul corpo-che-ho, avvicinandosi alla sfera dell’essere e non a quella dell’avere.
L’esperienza propria dell’essere è aperta solamente alla riflessione conscia quando è collocata nella relazione contestuale di essere-nel-mondo (Dasein). In questo modo, l’essere riflettente e l’oggetto di riflessione sono ciascuno definito o costituito attraverso le loro varie relazioni esistenziali (27, 29, 33, 44, 357) (ASPIC)
Per Relazione dialogica si intende l’apertura al confronto nell’elaborare le proprie convinzioni. Il termine dia-logo indica la lontananza estrema tra due discorsi (logoi), come nella parola dia-metro tra due punti di una circonferenza e quindi il potenziale superamento di una dimensione mono-logica nella direzione di una dialettica tra opposti. Tale opposizione non significa necessariamente contrapposizione (evocata dall’aforisma eracliteo “polemos pater panton”: lo scontro è padre di tutte le cose) che pure rappresenta il fondamento dialettico della democrazia come perenne confronto tra governo e opposizione. Può indicare infatti alla possibilità di esplorare un contenuto da prospettive diverse. Di qui la geniale invenzione del “dialogo platonico” nel quale il maestro (Socrate nel nostro caso) non si pone come detentore della conoscenza ma – conscio di sapere di non sapere – la “mette in gioco” in uno scambio di prospettive. Il “cercare insieme” corrisponde quindi ad un stile inter-soggettivo e dia-logico che supera il verticismo gerarchico proprio di chi presume di detenere il vero nei confronti di chi lo dovrebbe solo accettare acriticamente. Le premesse neurofisiologiche si rifanno in particolare alle ricerche di Antonio Damasio che nel suo “L’errore di Cartesio” evidenzia l’insostenibilità della teoria dualista mente/corpo in vista di un continuo dia-logo tra emozioni e cognizioni nella costruzione del sé. La molteplicità del sé viene esplorata ancora da C. G. Jung e J. Hillman nonché da F. Perls ed E. Polster nella drammatizzazione tra le polarità del sé nel monodramma gestaltico. In ambito letterario il dialogismo (vedi Mickheil Bakhtin) indica il superamento di una omogeneità di generi letterari per lasciar posto ad inclusioni eterogenee che ne vivifichino il testo. Di grande attualità sono gli sviluppi recenti sul versante della multimedialità e della commistione dei linguaggi (387) (CSTG)
“In psicoterapia della Gestalt, la relazione è l’evolversi dei contatti tra un determinato «organismo-animale-umano» e una parte del suo ambiente (umano o non umano).
La psicoterapia della Gestalt studia il qui-e-ora della relazione, definito come l’accadere, il rivelarsi dell’esperienza co-creata da organismo-e-ambiente-in-contatto. Il termine contatto implica l’interesse per l’esperienza generata dalla concretezza dei sensi, e dunque per i valori estetici e processuali della relazione. Il confine di contatto è il luogo in cui si dispiega il sée la fenomenologia dell’incontro, con le fasi del pre-contatto, contatto, contatto pieno e post-contatto, include sfondi (acquisizioni passate) e figure, cioè determinazioni attuali protese al futuro (figura/sfondo, dinamica). L’aggressività, in quanto forza spontanea destrutturante di sopravvivenza, sostiene l’esperienza di andare verso l’altro e l’adattamento creativo consente all’individuo di differenziarsi dal contesto sociale, ma anche di esserne pienamente e significativamente parte. La relazione terapeutica è l’esserci-con del terapeuta e del paziente; essi creano un campo esperienziale in cui l’evolversi spontaneo (non ansioso) del sé al confine di contatto è possibile e l’intenzionalità insita nella richiesta di cura del paziente può attuarsi” (349, p. 529; 338, pp. 130-131) (HCC ITALY)
All’interno di una seduta allo psicoterapeuta della Gestalt è richiesto di fare due cose contemporaneamente: da un lato, osservare le modalità dello svolgersi della seduta terapeutica, prestando attenzione sia alle aree funzionali del comportamento del cliente sia a quelle disfunzionali, sulle quali si concentrerà il lavoro terapeutico; dall’altro lato, essere disponibile per una relazione autentica, dal momento che il contatto genuino è un bisogno umano fondamentale. Il concetto buberiano di ‘Io-Tu’ che è a fondamento del compito richiesto allo psicoterapeuta della Gestalt di considerare l’altro come una persona e non come un oggetto, richiede di lavorare sempre in ‘presenza di sé stessi’, ovvero di essere concentrati sul qui ed ora, di essere consapevoli di sé e di condurre sé stessi nel campo della relazione terapeutica. Ciò non significa essere trasparenti al cliente ‘in assoluto’ ma, piuttosto, essere trasparenti ‘al servizio del cliente’. Se al cliente è richiesto di imparare ad essere consapevole e genuino al servizio della sua crescita personale, al terapeuta è richiesto di essere genuino e selettivamente trasparente nella misura in cui ciò sia considerato utile alla crescita personale del cliente. Qualsiasi altra consapevolezza del terapeuta che non rispetti questo requisito è tenuta al di fuori della seduta. Il tema dell’autenticità attribuisce al terapeuta la responsabilità di essere altamente consapevole delle tematiche controtransferali attuali e potenziali (IPGE)
RESPONSABILITÀ
Responsabilità, anche letteralmente, rimanda alla “capacità di rispondere, di esplicitare pensieri, reazioni ed emozioni in una data situazione. Ora, questa responsabilità, questa capacità di essere quel che si è, viene espressa dalla parola io” (215, pg.74). Sempre per Perls (218, pg. 229) “Non si sottolinea mai abbastanza l’importanza di questa concezione: senza assumersi piena responsabilità, senza riconvertire i sintomi nevrotici nelle funzioni consapevoli dell’Io non è possibile alcuna guarigione”. Queste due citazioni ci conducono a collegare il tema della responsabilità ad altri due elementi importanti: la consapevolezza, l’esprimersi in prima persona e l’essere se stessi. Solo la consapevolezza delle proprie emozioni, dei pensieri, delle azioni così come dei propri meccanismi di interruzione del ciclo di contatto può portare ad una assunzione di responsabilità “non nel senso di doverci assumere un peso che prima non portavamo, ma invece nel senso che prendiamo coscienza del fatto che siamo noi stessi a determinare nella maggior parte dei casi se questi eventi debbano o no continuare ad esistere” (219, pg. 294). Nella pratica del lavoro psicoterapico ognuno è soggetto dei propri accadimenti, come delle proprie scelte e del proprio destino (ad un livello che può essere di maggiore o minore consapevolezza) e nulla può farci presumere di conoscere l’altro e la via di una sua possibile migliore realizzazione che non sia lui stesso (CSTG)
Insieme a qui e ora e consapevolezza è uno dei principi guida della terapia gestaltica. Sebbene comunemente per responsabilità si intenda l’assunzione di un dovere o di un impegno, in Gestalt la mettiamo in relazione all’etimo latino re-spondere, cioè, come suggerisce C. Naranjo (202), rispondere congruentemente agli stimoli ricevuti. Questo può avvenire solo stando nel presente ed essendo consapevoli. Al contrario, quando seguiamo schemi prefissati che ci guidano sul cosa fare, pensare o sentire, perdiamo il contatto con l’esperienza effettiva e manipoliamo la realtà, senza rispondere agli stimoli o alle vere necessità. Il rispondere congruentemente viene impedito dal doverismo, dall’intornismo e da ogni forma di manipolazione che ci allontana dall’essere noi stessi e dal nostro autentico sentire. Per riappropriarsi della sua capacità e del suo potenziale è necessario che il paziente si assuma la responsabilità delle proprie scelte, così da evitare proiezioni paralizzanti e risvegliare potenziali ed energie da investire in comportamenti più efficaci. Tecniche confrontative, così come l’accoglienza del terapeuta, favoriscono nel paziente l’assunzione di responsabilità ed il passaggio dalla dipendenza ad una piena autonomia (IGAT)
RETROFLESSIONE
La retroflessione è una delle resistenze classiche della Gestalt. L’organismo blocca l’azione appropriata e si ritira in prossimità del contatto finale. L’energia inverte la propria direzione e si ritorce verso l’organismo. Una parte dell’organismo è spinta a svolgere la funzione dell’ambiente (219, 149, 276, 171, 176) (CSP/IGA)
Retroflettere, letteralmente volgere indietro. Per la teoria della Gestalt con il termine retroflessione si intende “che una certa funzione che originariamente è diretta dall’individuo verso il mondo, cambia direzione ed è rivolta all’indietro, verso colui che l’ha originata” (219, pg. 130). Si tratta di un fenomeno che avviene al confine di contatto per cui lo sviluppo dell’eccitazione è interrotta e l’individuo la orienta verso di sé anziché contattare pienamente l’ambiente.
Le energie di orientamento e manipolazione volte all’esterno vengono rivolte contro gli unici oggetti privi di pericolo e disponibili e cioè la propria personalità e il proprio corpo.
Perls et al. (213, pg. 263) identificano nella retroflessione tre caratteristiche: a) aggressività nei confronti dell’organismo (annullamento ossessivo); b) aggressività nei confronti dell’ambiente (auto distruttività, guadagno secondario della malattia); c) diretta soddisfazione possibile nella fissazione (sadismo attivo, l’essere indaffarati).
La retroflessione può essere considerata sia funzionale, sia disfunzionale : “un esercizio sano della retroflessione consente di contenere impulsi per dilazionarne l’espressione in tempi e situazioni che ne consentano un più efficace soddisfacimento, una cronica attitudine a retroflettere comporterà una ritenzione abituale dei propri bisogni con conseguenti comportamenti autoinibitori che ostacoleranno una più sana osmosi tra bisogni dell’individuo e possibilità di contatto con le risorse dell’ambiente”(387, pg. 94). Le retroflessioni più importanti sono: l’odio diretto contro il sé (che conduce all’autodistruzione, al suicidio), il narcisismo, l’autocontrollo o il super-controllo. Altre forme di retroflessione sono: il pensare (quando sostituisce l’azione), l’introspezione (retroflessione attiva), ipocondria (retroflessione passiva), l’auto-rimprovero (CSTG)
“Quando una persona retroflette il suo comportamento, vuol dire che fa a se stesso ciò che originariamente fece o ha cercato di fare ad altre persone o ad altri oggetti […] perché ha incontrato quello che allora costituiva per lui un’opposizione insuperabile. L’ambiente – per la maggior parte altre persone – si è mostrato ostile riguardo ai suoi tentativi volti al soddisfacimento dei propri bisogni, l’ha frustrato e punito. […] In alcune situazioni, trattenersi è necessario, può perfino salvare la vita. […] La retroflessione (in inglese Retroflection) è patologica solo quando risulta abituale, cronica e incontrollabile; poiché allora non è qualcosa che viene fatto temporaneamente, come misura di emergenza o in occasione di un momento particolare, ma costituisce un intoppo, un punto morto perpetuato nella personalità” (219 pp. 419-420). Nella recente prospettiva dello sviluppo polifonico dei domini, teorizzata da Margherita Spagnuolo Lobb, la “modalità del retroflettere, del sentire la pienezza della propria energia confinata/tenuta al sicuro all’interno del corpo e del sé” (340 p. 44) è considerata un dominio. Nel retroflettere, l’“energia viene dall’agire su sé stessi. […] Il bambino ora acquisisce la capacità di stare solo, di riflettere, di produrre i propri pensieri, di inventare una storia […]. Questa modalità di contatto sta alla base della capacità di fidarsi e sentirsi al sicuro con se stessi, e si sviluppa lungo tutto l’arco della vita. Il rischio, in condizioni di desensibilizzazione del confine di contatto, è che la retroflessione possa condurre alla solitudine, e la creatività del soggetto possa rivelarsi all’altro come grandiosità” (340 p. 44). “Per evitare l’ansia, l’organismo stabilisce un contatto attraverso questo stile di interruzione della spontaneità: lo sviluppo dell’eccitazione è interrotto ritorcendola verso di sé, anziché lasciare che essa conduca al contattare l’ambiente pienamente” (339 p. 84) (HCC ITALY)
Se nel suo contattare l’Ambiente (A.) il bisogno è stato identificato, l’eccitazione ha raggiunto l’intensità richiesta, l’Organismo (O.) ha sentito come proprie l’emozione e l’eccitazione ed è pronto all’azione decisiva del contatto: può consegnarsi – per tanto o per poco – all’altro. La paura raggiunge il suo livello più alto, ma anche il coraggio è presente. Se il sostegno sarà disponibile, allora il coraggio vincerà sulla paura ed avverrà (finalmente!) il contatto: la crescita dell’O. Mancando il sostegno specifico (una presenza disponibile ma non oppressiva o richiedente), l’O. si sentirà travolto dalla paura di un incontro nel quale gli sarà richiesto troppo e sentirà sfiducia nell’A., che percepirà piccolo ed esigente. Proprio in prossimità del contatto finale bloccherà il percorso verso l’altro e si ritirerà sfiduciato. L’energia, pronta per andare verso l’A., invertirà la propria direzione e si ritorcerà verso l’O. stesso. Esso si sentirà costretto a fare da solo, a dichiararsi autosufficiente, a fare a se stesso e con se stesso quello che avrebbe voluto fare all’A. In modo particolare, viene vissuta come distruttiva e umiliante l’esperienza del rifiuto e della perdita di controllo del contatto. «Nella retroflessione, il nevrotico è indaffarato ed impegnato, laddove il sé che si concentra si sente lasciato fuori, escluso dall’ambiente» (219, p. 268). Dal punto di vista corporeo, l’ansia avvertita diventa manipolazione e contrazione inconsapevole dei muscoli (300). L’aggressività o la sessualità finiranno per essere rivolte contro/verso se stessi: l’O., travolto dalla fobia del legame e dalla paura di ferire e di essere ferito, preferisce sdoppiarsi in O. e A., corpo che avverte il movimento ossia la spinta in avanti e corpo che al contempo la subisce (interruzione come retroflettere) (hcc Kairos)
SAGGEZZA NATURALE
Il concetto di saggezza corrisponde alla capacità umana di valutare un modo corretto, prudente ed equilibrato le varie opportunità, optando di volta in volta, per quelle più efficaci. Si basa sull’esperienza di vita e su ciò che a lungo termine si rivela corretto e adeguato.
Il saggio ha una nuova visione realistica del mondo in tutte le sue sfaccettature positive e negative e fa spesso ricorso alla ragione e agli aspetti dell’intelligenza umana che comprende l’intuizione, le emozioni e i sentimenti, avendo anche un sistema etico di valori. La saggezza include le virtù: l’umiltà, la compassione, la temperanza, la tolleranza, l’assenza di pregiudizi, conciliando quante più prospettive possibili rifondendo serenità psichica. Il saggio supera le divergenze settoriali nel campo complesso delle psicoterapie e tende alla conciliazione critica piuttosto che alla polemica circa i migliori trattamenti. La saggezza clinica evidenzia gli elementi essenziali, i loro benefici e le varie controindicazioni nonché i principali fattori comuni e specifici che legano tra loro i modelli parziali (90, 110, 95) (ASPIC)
Con il termine saggezza naturale ci riferiamo all’essere profondo dell’individuo, alla sua essenza, che si manifesta, e si può sperimentare, abbandonandosi al fluire dell’esperienza, fatta di vuoto e movimento, mollando la presa a favore dell’autoregolazione organismica. Tale concetto è intimamente collegato a quello di vuoto fertile e al principio di preferenzialità che sostiene la naturalezza istintuale. Nella visione di F. Perls i fenomeni nascono dal nulla, dal vuoto fertile appunto, e ad esso si ritorna quando l’esperienza si conclude. In tale ottica, possiamo concepire il vuoto non come mancanza d’essere o di esperienza, quanto piuttosto come una pienezza, uno stato quieto della mente, senza movimento e senza oggetto. Nel momento in cui si torna in contatto con la propria natura essenziale, primordiale, la coscienza fluisce libera e con essa la spontaneità del sentire, l’espressione dei desideri e la soddisfazione dei bisogni più autentici. Il processo dà vita ad un continuo senza interruzioni e ogni attimo diventa un momento irripetibile, inafferrabile, che porta ad uno stato di saggezza fondata sulla presenza, condizione difficile da descrivere, eppure sperimentabile. Quando il continuo si interrompe, può emergere la paura di perdersi nel nulla. Di qui l’angoscia esistenziale, la mancanza d’essere e il conseguente strutturarsi di modalità rigide sulle quali poi si organizza l’esistenza.
In Gestalt utilizziamo diverse vie e varie tecniche per guidare il paziente a fare esperienza del vuoto e della saggezza naturale. La via più diretta e specifica è quella della pratica meditativa che, nelle sue diverse forme, come ad esempio la focalizzazione dell’attenzione e, allo stesso tempo, l’attitudine a fare niente, favorisce lo stato di presenza. Strettamente connessa al qui e ora, è la comprensione profonda dell’impermanenza della nostra condizione e della sofferenza che produce l’attaccamento alle esperienze quotidiane allontanandoci dallo stato profondo della mente pura o rigpa (IGAT)
SEDIA CALDA
È una tecnica, utilizzata spesso da Perls, mediante la quale un terapeuta arrivato al punto del “contatto” nella seduta con il proprio cliente, gli suggerisce di sedersi su una postazione prestabilita (poltrona, sedia, cuscino, ecc) accanto a sé, denominata appunto calda (o bollente). Sedendosi sulla “sedia calda” il cliente mostra la sua disponibilità a coinvolgersi in un processo insieme al terapeuta, di fronte, solitamente, è messa la sedia vuota sulla quale il cliente può proiettare personaggi, parti di sé, situazioni della sua vita con le quali entrare in relazione. Il cliente regolerà spontaneamente o sotto il suggerimento del terapeuta la distanza e/o l’angolazione preferita della sedia calda dalla sedia vuota, momento per momento, nel lavoro esperienziale in atto. La tecnica permette al cliente di esplorare il suo funzionamento sperimentando vecchie e nuove modalità relazionali al fine di una maggiore consapevolezza e senso di responsabilità dei propri pensieri, sentimenti, emozioni e strategie comportamentali. Tale tecnica non va utilizzata indiscriminatamente; è da tener presente: una buona conoscenza del proprio cliente, la rilevanza nel processo terapeutico, il tempismo del suo utilizzo (86, 103, 104, 126) (ASPIC)
Nella forma linguistica originale, hot seat significa sedia ‘a fuoco’ in senso ottico. Oltre ad essere uno strumento di focalizzazione, è anche il luogo dove la persona si prende la responsabilità delle sue comunicazioni, e per questo nella tradizione della Psicoterapia della Gestalt ha assunto l’accezione di sedia ‘calda’in senso emozionale (IGF)
SEDIA VUOTA
Nella tecnica della sedia vuota, la nostra attenzione va al concetto di vuoto, inteso come “vuoto fertile”, come spazio disponibile a contenere, uno spazio d’integrazione che si offre al paziente per esplorare diversi aspetti e rendere visibile l’invisibile, conscio l’inconscio, uno spazio inteso anche come “funzione trascendente”. Offrire uno spazio vuoto dà la possibilità di riorganizzare, attraverso un’esperienza fisica, immaginativa ed agita una gestalt finalmente integrata (35, 86, 43, 49) (CSP/IGA)
Margherita Spagnuolo Lobb (339 p. 50) sviluppa il concetto della sedia vuota, sottolineando la “…tensione processuale [che] è oggetto di attenzione costante da parte del terapeuta il quale, nella sua funzione di cura, è focalizzato sul now-for-next, sul sostenere il movimento ‘in gestazione’ del paziente.
La sottolineatura di questo aspetto epistemologico ha portato a una revisione della famosa tecnica gestaltica della sedia vuota che, notoriamente, utilizza l’esternazione di un dialogo interno per ampliare la consapevolezza di dinamiche interiori. Considerando invece la centralità del farsi della relazione tra paziente e terapeuta, la tecnica della sedia vuota viene sostituita dal dire al terapeuta – anziché alla sedia – ciò che il paziente direbbe alla persona o alla parte di sé collocata sulla sedia (Isadore From, come riportato in un articolo di Bertram Müller del 1992 pubblicato su “Quaderni di Gestalt”). Questo cambiamento consente di riportare nel vivo della situazione, nel campo dell’incontro attuale, il blocco relazionale; cioè, lo schema relazionale che copre (impedisce di sentire) l’ansia legata all’eccitazione non espressa, non attualizzata” (HCC ITALY)
E’ la forma classica in cui si presenta il setting gestaltico: tre sedie disposte a triangolo, in una delle quali siede il terapeuta, in un’altra il paziente e nella terza, vuota, siedono gli interlocutori problematici messi in scena dal paziente. Ogni sedia guarda lo spazio in mezzo alle altre due, a ricordare che ogni essere umano risulta da una contrapposizione dialettica di parti interne, e che per vedere davvero la persona è dentro questa contrapposizione che bisogna guardare, nei processi intrapsichici cioè che ne animano il mondo emozionale. Per sedia vuota si intende una situazione tripolare, dove il paziente si presenta nel rapporto con il terapeuta come intrinsecamente ambivalente: per questo parla da due posizioni separate, rappresentabili scenicamente con due sedie diverse o semplicemente considerabili come due punti di vista differenti che la persona immagina di assumere alternativamente, in modo da rendere manifesta la relazione dialettica con se stessa. Nell’approccio gestaltico gli interlocutori interni, sia quelli dei sogni che quelli dei ricordi, si considerano parti di sé anche quando hanno l’aspetto di altre persone, e si considera fondamentale il dia-logos fra queste parti, nell’ottica dello sviluppo della consapevolezza e delle abilità necessarie a gestire i conflitti inevitabili che abitano ogni essere umano. In questo senso la sedia vuota non è altro che lo strumento tecnico basilare per maneggiare creativamente un conflitto dopo che è stato interiorizzato (IGF)
SINTOMO
L’etimologia greca del termine sintomo, ‘cadere insieme’, indica la coincidenza del fatto morboso con un altro fatto, che ne è l’effetto o il segno; fenomeno che accompagna una malattia. “In quanto costituisce un lavoro del suo proprio sé creativo, il sintomo esprime l’unicità di un uomo” (219 p. 94). “L’idea di accettare il sintomo – precisamente la cosa di cui volete sbarazzarvi – appare sempre assurda. […] Il mezzo diretto di condannare il sintomo, di considerarlo qualcosa di imposto, di rivolgervi agli altri per un aiuto nel tentativo di farlo scomparire: questo mezzo non funzionerà. L’unico mezzo efficace sarà quello indiretto: dovrete acquistare una viva consapevolezza del sintomo, accettare entrambi i lati del conflitto come voi – ciò significa identificarvi nuovamente con le parti della vostra personalità che avete in precedenza respinto – e quindi scoprire i mezzi tramite i quali entrambi i lati del conflitto, forse sotto una forma nuova, possano venir espressi e soddisfatti” (219 pp. 438-439). “La prospettiva fenomenologica, pur nel dilemma tra soggettività e oggettività che costituisce un nodo centrale del pensiero di molti filosofi, considera l’esperienza come ciò che dà la conoscenza, e che non è in alcun modo sostituibile con l’analisi concettuale. […] Ciò consente alla psicoterapia di passare da un modello estrinseco di salute ad un modello estetico, basato sulla percezione attuale dell’incontro tra terapeuta e paziente, quindi su fattori intrinseci alla relazione. […] Lo psicoterapeuta della Gestalt non intende far sì che il paziente raggiunga uno standard ‘sano’ o ‘maturo’ di vissuto e di comportamento, ma che si (ri)appropri della spontaneità nel suo fare contatto, che (ri)acquisti la pienezza del proprio esserci nel contatto” (339 pp. 30-31) (cfr. 352). (HCC ITALY)
Il sintomo è un testo – un’opera d’arte aveva detto Freud – frutto del potere creativo del paziente, eppure insidiato da una costitutiva rigidità, che vuole essere sbloccata. Davanti ad esso il paziente si chiede: che senso ha? Che significa ciò che sta accadendo? Secondo Perls, Hefferline e Goodman il terapeuta sa che il testo appartiene al paziente, per quanto questo sia inizialmente spiazzato dalla provocatoria estraneità del sintomo (219). Il testo del sintomo, dunque, mantiene una sua peculiare disponibilità alla comprensione del paziente, suo interprete primario. Solo il paziente ha la facoltà di capirsi nel sintomo e di coglierne la verità. Dal punto di vista gestaltico il sintomo chiama alla relazione, scioglierne la rigidità vuol dire cogliere la sua intrinseca componente relazionale (326). La verità di cui esso è annunciatore non può prescindere dalla concretezza della relazione terapeutica. Il sintomo come appello non cerca la ricostruzione di una intentio originaria, ma esige che l’interprete assuma nei suoi riguardi il compito della contemporaneità, nell’here-and-now. Per questo “la situazione terapeutica è parte della situazione incompiuta”: non è semplicemente una scena analoga a quella che ha provocato il disturbo, una riproposizione drammatica in cui il terapeuta svolge il ruolo dell’attore riflesso; essa è al contrario il darsi stesso della situazione incompiuta nella piena contemporaneità, l’esserci effettivo di una situazione i cui partecipanti sono messi in gioco (296, 330) (hcc Kairos)
“Secondo la terapia della Gestalt il sintomo è frutto di un processo creativo che genera malessere e sofferenza. Creare porta in sé il nuovo, qualcosa che si discosta dai nostri modelli abituali di vita e che comunque ci appartiene e ci rappresenta” (68). Il sintomo affonda le sue radici nelle repressioni e nei divieti che impediscono il libero fluire delle energie vitali, di bisogni e desideri, o anche l’espressione di stati emotivi proibiti, come ad esempio la rabbia o il rifiuto. Il sintomo va ascoltato, è importante il suo messaggio, contiene in sé un invito a soddisfare le gestalt aperte, ma bloccate, perché chiuse da formazioni cognitive, quali ad esempio: “Se mi arrabbio non mi ameranno più”, che sostituiscono la vitalità dell’emozione inespressa. La Gestalt propone che il sintomo si racconti e a tal fine è necessario concentrarsi in esso, come suggeriva Perls (219). Bisogna dargli piena attenzione, in modo che diventi più vivo e presente nella coscienza, permettendo che l’energia raggiunga il suo culmine, in modo spontaneo. Allora il sintomo rivela la sua storia e le sue ragioni e dalla narrazione emerge ciò che manca, lo sfondo entra in figura. Grazie al trucco della drammatizzazione cadono le difese e ci si apre alla spontaneità. Quando il sintomo si racconta, la persona diventa trasparente a se stessa. Se ci identifichiamo e gli diamo voce, il sintomo ci parla, diventa un attore, ed è la persona nella sua interezza che si esprime. Le consapevolezze che ne derivano sono già di per sé curative, il solo prender coscienza del danno che ci procuriamo può lenire la sofferenza. Altre volte, il sintomo dà indicazioni su quanto occorre fare, cosa bisogna evitare o cosa invece alimentare, perché l’organismo ritrovi un suo equilibrio. Nel caso emergano polarità conflittuali, possiamo utilizzare più proficuamente tecniche integrative mirate a riassimilare il sintomo stesso (IGAT)
Negli approcci a orientamento olistico, quando si manifesta un disturbo, invece di reprimerlo come un fattore estraneo, lo si prende in considerazione come una manifestazione vitale: si considera cioè conseguente alla relazione fra parti intrapsichiche che l’influenza esterna può mettere sotto stress e rendere difficile. In questa ottica i disturbi psichici (non organici) devono essere considerati situazioni di carenza, dove una parte non si sviluppa abbastanza da riuscire a manifestarsi in modo soddisfacente. L’approccio sistemico ha dimostrato che i sintomi sono qualcosa che si fa. In realtà si potrebbe dire che il sintomo è una delle tre possibili situazioni che un incontro fra due parti può generare: Sintesi, Compromesso, Sintomo. La contrapposizione fra A e B cioè può dar luogo a una situazione in cui sia A che B sono scontenti, a una migliore dove sia A che B sono parzialmente contenti, e questo sarebbe un compromesso, e a una terza in cui sia A che B sono soddisfatti, e questo è una sintesi (o piuttosto, nell’ottica di Merleau-Ponty, un campo di forze all’interno del quale può avvenire qualcosa di nuovo). In questo senso il sintomo non è altro che la soluzione in un certo senso più facile a un conflitto, anche se la più disfunzionale, ed è il tipo di soluzione generata da situazioni difficili e che genera situazioni difficili. Ripercorrendo all’indietro il processo dialettico, se invece di guardare al sintomo ci si occupa delle sottostanti istanze contrapposte, le emozioni cioè che dilaniano la persona, si ha la possibilità di interferire con un equilibrio, in realtà dinamico e che, solo per ragioni contingenti, si presenta statico. La tecnica della ‘sedia vuota’ (vedi) è un modo per sottolineare formalmente questa discesa dalla compattezza del sintomo alla sottostante contrapposizione fra le istanze: un modo di facilitarne il confronto, normalmente impedito da quella collosità invischiante che l’assenza di chiari confini fra le parti produce (IGF)
SOGNO
Una delle caratteristiche della teoria della gestalt è quella di unificare ‘corpo e mente, materia e spirito’ (Ginger).
La ‘navetta mentale’ favorisce il passaggio dal fantasmatico (gestalt incompiute) alla messa in atto nel ‘Qui ed Ora’.
Il lavoro con il sogno e l’immaginario, attraverso la ‘messa in forma’ della simbologia inconscia attivata dall’immaginario onirico e vissuta attraverso il processo terapeutico, è considerato un tema portante nel percorso di trasformazione della personalità del paziente.
In gestalt il sogno viene utilizzato nelle sue diverse forme espressive: sogno, sogno da svegli, fantasticherie, metafore, creatività, e consente di creare legami con la realtà sociale, concreta, condivisa.
Per Perls ‘tutti i vari elementi del sogno sono frammenti della personalità. Dal momento che lo scopo di ciascuno di noi è quello di diventare una personalità sana, vale a dire unificata, occorre riunire i vari frammenti del sogno…’ Riappropriarsene, recuperandone il potenziale dei significati, scorporandoli dalle esperienze passate per reintegrarli nel presente.
Le modalità utilizzate nel lavoro con il sogno in gestalt sono: la messa in atto rappresentativa e la drammatizzazione, la narrazione al presente; oppure lo si può scrivere elencando tutti gli elementi evocati e divenire ciascuno di essi, o rappresentarlo con l’utilizzo di tecniche espressive e creative.
Anche ‘Le tecniche gestaltiche tradizionali vengono applicate alla elaborazione di un sogno (consapevolezza, messa in atto, monodramma, amplificazione, lavoro sulle polarità, assunzione di responsabilità, sperimentazione del contatto e del ritiro con un elemento del sogno, con il terapeuta, con un membro del gruppo, e così via)’ (86) (ASPIC)
Il sogno è una rappresentazione interna di quanto si muove nella psiche in quel momento. Il lavoro con il sogno, pertanto, attiva un possibile processo d’integrazione. Tutti gli elementi rappresentati nel sogno appartengono al sognatore ed i modi per lavorarci sono vari (per esempio drammatizzazione, scultura corporea, amplificazione, associazioni etc.) (34, 61, 211, 144, 227) (CSP/IGA)
Il lavoro sul sogno, rappresenta sicuramente uno degli ambiti applicativi più originali dell’approccio gestaltico. Nella sua opera L’interpretazione dei sogni, Freud definisce il sogno come la “via regia” alla dimensione inconscia e quindi al processo dell’auto-esplorazione. Nell’approccio gestaltico al lavoro sul sogno (detto anche dreamwork), come in generale, si evita un approccio interpretativo a favore di quello esperienziale. Non è quindi compito del terapeuta avventurarsi in percorsi interpretativi ma accompagnare il cliente nel processo di familiarizzazione con i propri contenuti immaginali. «Dopo aver preso coscienza dell’esistenza delle proiezioni, dopo averle riconosciute come appartenenti alla vostra personalità, dovete assimilarle» (219, pag. 241).
In conclusione possiamo dire che il lavoro sul sogno rappresenta un’ utile opportunità di esplorazione del sé e delle sue modalità di contatto e di cambiamento, specie se utilizzato con una attitudine di ascolto partecipe che favorisca la riappropriazione delle parti scisse, di presa di coscienza sui vissuti rimossi nonché di rappresentazione di quegli scenari immaginali verso i quali il “pensiero anticipativo” tipico del sogno a volte ci propone. Per dare la parola a Perls (219, pag. 251): «Tutti i differenti elementi del sogno sono dei frammenti della personalità. Essendo il fine di ciascuno di noi divenire una personalità sana, vale a dire unificata, si tratta quindi di mettere insieme i diversi elementi del sogno. Dobbiamo riappropriarci degli elementi proiettati, frammenti della nostra personalità, e recuperare quindi il potenziale contenuto nel sogno» (219, 407) (CSTG)
Nel lavoro sul sogno, spesso ci troviamo di fronte ad elementi opposti che tuttavia, trattati con tecniche adeguate, paradossalmente si integrano e si arricchiscono a vicenda, dando vita a nuove figure e significati. Il sogno è infatti il luogo nel quale i contenuti profondi vengono rappresentati, ed insieme celati, assumendo forme narrative che esprimono l’attitudine creativa e sintetica dell’organismo. Con le parole di F. Perls il sogno è “l’espressione più spontanea dell’esistenza dell’essere umano“, “la via regia all’integrazione” (215). Il sogno, in questo senso, è un alleato, un maestro che guida ed orienta la consapevolezza. E’ un “messaggio esistenziale” (203), ci fornisce una rappresentazione ricca e compiuta in sé della nostra condizione psicologica e si offre a noi come strada per riappropriarci di parti scisse, proiettate, rifiutate. Il lavoro sul sogno si basa su una serie di tecniche volte ad acquisire consapevolezze sulla nostra esistenza, ad integrare parti alienate e a sviluppare quelle mancanti. Il sognatore viene invitato a rispecchiarsi nei vari passaggi narrativi come rappresentazione della propria condizione esistenziale, o viene portato ad identificarsi con gli elementi del sogno, anche se insignificanti, o sollecitato a trovare creativamente finali differenti. Il sogno fa vivere concretamente l’esistenza di una dimensione psicologica che sfugge al controllo volontario e richiama l’attenzione su quanto è al di là della nostra consapevolezza. Come afferma Simkin: “il sogno contiene due importanti elementi, il primo è l’enunciazione di chi siamo […] l’altro è che […] c’è una parte mancante” (333) . Ci invita al rispetto del limite, ricorda l’alterità che è dentro di noi, attiva nuova conoscenza e stimola l’interesse per il nostro funzionamento più profondo (IGAT)
Non si sa cosa siano i sogni, ma Freud formulò una ipotesi molto soddisfacente, che può essere utilizzata con successo nella psicoterapia: propose che quando il corpo dorme e non può portare la persona verso gli oggetti dei suoi desideri, allora è la fantasia che porta questi alla persona con il sogno. In questo senso il sogno è la realizzazione, fantasmatica, di desideri, al plurale. Anche nell’approccio gestaltico si può prendere in considerazione che il sogno sia un tentativo immaginativo di realizzare desideri, ma in seduta il problema è soprattutto cosa la persona vuol cambiare nel suo personaggio, o nel senso di realizzare nel dialogo con la sedia vuota qualcosa che non ha realizzato nel sogno, o nel senso di fare nel mondo concreto qualcosa che gli è piaciuto di fare sul piano onirico (IGF)
L’idea portante che F. Perls utilizza per sviluppare la sua teoria e pratica di intervento sul sogno è che esso sia, in ogni sua componente, l’insieme delle proiezioni delle parti della personalità del sognatore. Quindi, secondo Perls, è importante che la persona possa entrare in contatto con le figure del sogno per riconoscere in quale modo gli appartengono. Questo concetto estremamente fertile può essere completato dicendo che non è soltanto la rappresentazione onirica delle parti di sé ma la rappresentazione del modo di essere nel mondo del soggetto, della dinamica della sua condotta. Il sogno nella terapia della Gestalt viene accolto come una rappresentazione dell’esistenza dell’individuo e in questo senso possiamo parlare di ciclo onirico della condotta. In esso il rapporto organismo/ambiente non s’interrompe in quanto viene rappresentato all’interno dell’organismo. Le regole diventano quelle specifiche allo stato del sogno, il sonno diventa custode del sogno garantendo al sognatore la possibilità di sganciarsi dalle regole fisiche, temporali e sociali che strutturano la realtà dello stato di veglia. L’ambiente onirico diventa una mappa attiva che raffigura e rende operanti le emozioni e i vissuti del sognatore, dando vita alla rappresentazione delle sue dinamiche intrapsichiche e relazionali. Nel sogno, quindi, l’interazione dinamica degli elementi nei quali è parcellizzata la rappresentazione dell’esistenza, genera la figura d’insieme che riproduce il sognatore nel suo flusso di condotta (IPGE)
SOSTEGNO
Il processo di crescita, sostiene F. Perls, può definirsi come “il passaggio dal sostegno ambientale all’autosostegno”. Questo processo avviene in modo concreto ed evidente nel passaggio in cui un bambino muove i primi passi senza essere tuttavia in grado di stare in piedi sulle proprie gambe, a quello nel quale acquista gradualmente l’abilità di poterlo fare. Metaforicamente, un processo simile ed insieme assai complesso, avviene in varie competenze tra cui quella emozionale nel passaggio da forme di dipendenza affettiva ad una maggiore centratura e autonomia. S. Ferenczi scrive che il sostegno è la funzione riparatrice del processo psicoterapeutico, a correzione di ciò che nel processo educativo non ha funzionato come espletamento dei codici materno e paterno. B. Simmons, evidenzia come F. Perls estenda ulteriormente il concetto individuando nei suddetti codici le due funzioni necessarie nel ruolo terapeutico: l’incoraggiamento (codice materno) e la frustrazione (codice paterno). F. Perls, sottolineava infatti come fosse indispensabile l’azione sinergica dei due fattori: sia un eccessivo accudimento che una prematura spinta all’autonomia possono pregiudicare il processo di una crescita sana mentre la compresenza di ambedue i fattori la può garantire. Figure paradigmatiche del sostegno sono inoltre il Virgilio del percorso dantesco e lo sciamano: personaggi che avendo attraversato esperienze di morte e di malattia sono in grado di accedere a un mondo altro in cui trovano quei nessi di significato capaci di dare una spiegazione di un ordine alterato e ne prefigurano, insieme, il rimedio. Nell’ottica del sostegno appare dunque fondamentale la capacità del terapeuta che lungi dal dare indicazioni dall’alto e forte dell’attraversamento delle parti oscure della propria coscienza sa guidare il paziente all’attraversamento delle proprie, uniti nella ricerca di un elemento chiarificatore (387) (CSTG)
“Il termine sostegno […] diventa la cifra della psicoterapia moderna, basata sulla fenomenologia e sui valori estetici, che mira a sostenere l’evolversi spontaneo di un’energia intenzionale e intenzionata al contatto. Lo psicoterapeuta della Gestalt non interpreta, ma – basandosi sulla fiducia nei processi autoregolativi – sostiene il ‘capolavoro offuscato’ del paziente, il suo adattamento creativo, il suo interesse vitale reso piatto dalla nevrosi. Partendo dall’assunto che ogni individuo crea con energia, curiosità e amore il proprio essere nel mondo adattandosi alle condizioni (difficili) in cui vive, e che la nevrosi è un processo di desensibilizzazione da tale energia vitale, lo psicoterapeuta della Gestalt sostiene la ‘bellezza’ del paziente, gli dà il ‘permesso’ di creare la propria figura relazionale, sostenendo l’intenzionalità profonda che, mentre anima e dirige il suo essere, si incarna nei processi corporei e relazionali” (338, pp. 133-134). “Il terapeuta [della Gestalt oggi] risponde sostenendo il processo fisiologico del contatto (l’id della situazione, come dice Robine, 2006): ‘Respira e senti cosa accade al confine’. Inoltre, sostiene lo sfondo dell’esperienza: individua con quali modalità di contatto [acquisite] il paziente mantiene la figura (o il problema). Il terapeuta si focalizza sul sostegno al processo di contatto[…]. In [questi ultimi decenni il cosa sostenere si è evoluto:] se prima essere sani implicava trovare le ragioni per vincere, per emergere nella battaglia della vita, oggi vuol dire sperimentare il calore nelle relazioni intime, e la reazione emotiva e corporea verso l’altro. Nei gruppi, il terapeuta sostiene l’autoregolazione armonica che accade quando si vive un contesto orizzontale (paritario) in cui è possibile respirare e darsi sostegno reciproco” (339 p. 28). “Penso che oggi la psicoterapia abbia un duplice compito: quello di risensibilizzare il corpo, e quello del dare strumenti di sostegno relazionale orizzontale, che possano far sentire le persone riconosciute dallo sguardo dell’altro paritario” (339 p. 29). (HCC ITALY)
SPERIMENTARE
La Psicoterapia della Gestalt è un approccio basato sull’esperienza. Per questo si usano qui gli esperimenti: dopo averli compiuti si pensa su quello che è successo e, quando si è scoperto qualcosa di nuovo su di sé e sul mondo, lo si mette in pratica in altre situazioni per verificarne la funzionalità. Da qui il senso del mettere in scena (vedi), con personaggi immaginati sulla sedia calda (vedi) o con altri componenti del gruppo. Sono situazioni dove la persona fa esperienza di sé in rapporto con il mondo in aree nuove e da questo elabora conoscenze, le quali a loro volta vengono messe alla prova in altri esperimenti co-costruiti appositamente insieme al terapeuta. L’esperimento mette in luce difficoltà della persona che richiedono processi di sviluppo, oppure risorse che la persona non sapeva di avere: le difficoltà vengono ricondotte alle loro fonti organismiche, il dolore, la paura, l’aggressività e il sesso, e da queste basi, sempre per via sperimentale, si cercano forme comportamentali più gestibili per la persona, più congrue cioè alle sue istanze etiche, estetiche e funzionali. Per esperimento in psicoterapia della Gestalt si intende la costruzione, su un piano immaginario o teatrale, di situazioni ipotetiche atte a permettere alla persona di sperimentare stati emozionali evitati e di sviluppare attitudini funzionali ai suoi bisogni esistenziali: si chiede di immaginare una situazione difficile a cui la persona deve trovare una soluzione, eccetera. (IGF)
La Psicoterapia Gestalt ad orientamento fenomenologico-esistenziale è un approccio basato principalmente sull’esperienza. In questo senso si considera il processo di conoscenza prima di tutto come esperienziale e poi come cognitivo (45, 86).
Sperimentare diventa l’occasione per rappresentare una scena, una situazione reale o immaginaria (in modo simbolico) per favorire l’espressione e la risoluzione (o chiusura) di situazioni incompiute che promuovono, spingono e continuano a generare comportamenti nevrotici che sostengono scenari e copioni di vita poco funzionali e e inappropriati (45, 202).
Gli esperimenti aiutano a scoprire qualcosa di nuovo e funzionale su se stessi e sul mondo mettendo in luce difficoltà o risorse che la persona non usa e non riesce a vedere trovando e “sperimentando” appunto forme comportamentali più gestibili e utili per la persona (361) (IGP)
SPONTANEITÀ
L’approccio gestaltico afferma tra i propri principi, il diritto fondamentale di ‘divenire ciò che si è’, ossia il raggiungimento di una qualità di vita personale congruente al proprio sé più genuino e naturale, originale e spontaneo dell’essere al mondo; una conquista che legittima la propria soggettività, riconosciuta e recuperata nello spazio terapeutico. Parliamo quindi di una nuova dimensione dell’esistere raggiunta per mezzo della spontaneità, in grado di generare un senso di libertà ed equilibrio originale e soggettivo. La spontaneità in gestalt è in stretto rapporto con la creatività che l’emisfero destro esprime con un linguaggio polisemico, composto di suoni, odori, sapori, espressioni corporee quali la danza o il movimento libero o per mezzo di tecniche espressive quali il collage, la pittura, il modellamento, l’uso di oggetti riciclati utilizzati in modo del tutto personale ed originale. Questi strumenti divengono medium di relazione tra il paziente e il terapeuta e tra il paziente e il gruppo. La possibilità di far emergere significati che esulano dal linguaggio verbale, consente di riscrivere nel Qui ed Ora, il messaggio simbolico, catartico, immediato, fruibile con la messa in atto, la restituzione processuale del feedback fenomenologico, possibile nelle interazioni di gruppo o nel setting individuale con il terapeuta (7, 86) (ASPIC)
“La spontaneità consiste nell’afferrare, nell’illuminarsi e nel crescere insieme con tutti quegli elementi dell’ambiente che vi sembrano utili e interessanti” (219 p. 41). “La spontaneità è il sentimento di agire l’organismo/ambiente che si sta sviluppando, di non essere né semplicemente il suo artigiano né il suo prodotto finito, ma di crescere in esso. La spontaneità non è direttiva né autodirettiva, né significa essere trascinati dalla corrente rimanendo tuttavia fondamentalmente disimpegnati; significa piuttosto lo scoprire-e-inventare man mano che si va avanti, che si è impegnati e si accetta. L’elemento spontaneo è allo stesso tempo attivo e passivo, è la volontà e l’oggetto dell’azione; o meglio, è equidistante, è un’imparzialità creativa, è un disinteresse non nel senso di non essere eccitato o di non essere creativo, poiché eccitazione e creatività sono i tratti specifici della spontaneità, ma nel senso di costruire un’unità precedente (e successiva) all’attività e alla passività e che le contiene entrambe. […] Gli estremi della spontaneità sono da una parte l’intenzionalità e dall’altra il rilassamento” (219 p. 183). “La spontaneità è la qualità che accompagna l’essere pienamente presenti al confine di contatto, con la consapevolezza di sé, nel pieno uso dei propri sensi. Questa è la condizione per vedere l’altro chiaramente. […] Quando la spontaneità è interrotta, l’eccitazione diventa ansia da evitare” (339 p. 84) (HCC ITALY)
Si possono sperimentare due tipi distinti di spontaneità, quella del bambino che scarabocchia con i colori, e quella del pittore che dipinge quadri di buona qualità. A un osservatore esterno il movimento delle due persone sembra analogamente spontaneo, ma il bambino dipinge da un punto di equilibrio interno che precede qualunque disciplina e qualunque organizzazione complessa, mentre il pittore è cresciuto oltre la disciplina e dipinge con una conoscenza ‘tecnica’ dei colori e delle forme. La spontaneità primaria è facile, e molto desiderata da tutti: purtroppo non serve a realizzare opere di grande respiro. La spontaneità secondaria è invece figlia dello sforzo, e se permette migliori livelli di riuscita, costa fatiche che spesso le persone non sono disposte a sobbarcarsi, per cui preferiscono attestarsi sulle proprie incapacità giustificandosi con una ideologia della spontaneità (IGF)
TEATRO
La passione e l’interesse per il teatro, coltivati da Perls per tutta la vita, hanno profondamente influenzato e ispirato il fondatore della psicoterapia della Gestalt (86, pg 54).
Adolescente indisciplinato e ribelle aveva seguito come comparsa le prove di importanti spettacoli del regista mitteleuropeo MaxReinhardt, il cui metodo si basava sulla convinzione che l’attore doveva abbandonare le maschere convenzionali, i gesti stereotipati e il falso pathos per fare posto ad un coinvolgimento emotivo, corporeo e intellettivo di tutta la sua persona sino a fare emergere “la più profonda e bruciante verità” (19, pg 85).
Si ritrova in questa indicazione la stessa intensa passione che ha guidato Perls nel proporre, come aspetto fondante della psicoterapia, la ricerca della autenticità per ogni paziente.
Allo stesso tempo la profonda conoscenza e l’ampio utilizzo del linguaggio del corpo sperimentati nel lavoro con il regista ci rimandano “all’attitudine di Perls a cogliere ogni moto espressivo del paziente,sfumature tonali, micro gestualità, cambiamenti di postura” (387, pg 40).
Quello che avviene nello spazio terapeutico riguarda l’ambito dell’esperire, non quello del comprendere ed è lecito aspettarsi un evento e non solo una comprensione intellettuale.
Far avvenire ora comporta una variante decisiva che, nella poesia, distingue come forme diverse e lontanissime epica e dramma. Nella prima si cantano le gesta di altri, nella seconda si agiscono, attraverso il fenomeno della mimesi (oggi diremmo della identificazione proiettiva) i nostri stessi nodi esistenziali. C’è un agire (mise en action in cui la Gestalt recupera uno statuto di credito rispetto alla svalutazione dello acting out nella tradizione analitica), un far avvenire in uno spazio-tempo che è quello della vita vissuta e non raccontata che è il qui-ed-ora (CSTG)
Il teatro può essere considerato una matrice fondante della terapia della Gestalt. Perls ebbe tra i suoi ispiratori M. Reinhardt, un grande innovatore nel mondo del teatro. In particolare Reinhardt stimolava l’attore a mettere se stesso nel personaggio e ad uscire da schemi e cliché precostituiti, vivendo la propria esperienza teatrale senza finzioni. Una forma vera e autentica di rappresentarsi come persona. E’ facile il parallelo con la tecnica di identificazione e drammatizzazione delle parti elaborata da F. Perls.
- Ferrara propone una sua elaborazione di teatro terapeutico, il Teatro Trasformatore, che permette l’esplorazione delle aree più nascoste della personalità, secondo un modello integrativo fondato su Gestalt, Analisi Transazionale e Psicologia degli Enneatipi. Il lavoro si basa sulla ricerca creativa del proprio personaggio nel quale, attraverso la rappresentazione teatrale, l’attore sperimenta ciò da cui fugge o quello che continua a ripetere. Il gruppo di terapia è il pubblico che fa da sfondo e vivifica il personaggio. Grazie all’organizzazione di specifici moduli teatrali, il paziente attore viene guidato a scoprire aspetti sconosciuti della sua personalità e le strutture caratteriali che lo bloccano e limitano. La trasformazione avviene anche mediante l’induzione di ruoli diversi, intuitivamente attivati, e rappresentati (IGAT)
L’uso della messa in scena nella psicoterapia ha svariate modalità operative, a seconda dell’intenzione e quindi del background filosofico-epistemologico dell’operatore. Nell’approccio gestaltico, esistenzialista e fenomenologico, ha preferibilmente senso etico, ossia di ricerca di qualità dell’esperienza e quindi della vita: la sperimentazione teatrale, come quella letteraria, permette allo sperimentatore di articolare un linguaggio, in questo caso comportamentale, con cui costruire la sua quotidianità relazionale senza essere contaminato dalle coazioni di una comunicazione rimasta a un livello scolastico e, quindi, rigorosamente non creativa (IGF)
TEMPO
La percezione del tempo come dotato di senso si ha quando ci impegniamo in interazioni ed esperienze che sentiamo significative. Avere consapevolezza di bisogni e desideri e la coscienza di possedere gli strumenti per trasformarli in risultati porta alla ricerca del senso autentico della vita. Abitare il proprio tempo significa essere totalmente immersi nell’esperienza, ricordando che tutto quello che accade è importante per la realizzazione della vita. Quando stabiliamo un contatto pieno con l’ambiente e siamo presenti con tutti i sensi, con il cuore e con la mente, sperimentiamo una forte intimità soggettiva e relazionale che segna la trama dell’esperienza in un “prima” e un “dopo”; solo così sentiamo di possedere il nostro tempo e abbiamo la percezione di essere padroni della nostra vita creativa (17, 58, 114) (ASPIC)
In Gestalt Therapy (GT) si parla di tempo vissuto del contatto. Mentre Minkoski parla di ‘tempo vissuto’ per descrivere la percezione soggettiva del tempo e, in modo specifico, si sofferma sui modi in cui l’esperienza del tempo si declina nelle varie patologie (194), la GT, in modo originale, colloca tale intuizione dentro la relazione dell’Organismo (O.) con l’Ambiente (A.): il vissuto del tempo nella sua soggettività è sempre e comunque inscritto in una condizione dell’esserci-con (o, meglio, dell’esserci-tra) (310). Il tempo vissuto diventa il vissuto del tempo durante il processo per cui l’O. entra in contatto con l’A. In che modo – nei tempi che scandiscono il processo di contatto – le differenze di timing (del tempo vissuto dell’O. e dell’A.) impediscono il raggiungimento del contatto pieno? Le differenze di timing tra O/A, se sono rigide e non trovano nuovi accordi, derivano dall’ansia del contatto e lo impediscono. L’angoscia, infatti, è legata ai vissuti dei vari tempi in cui si crea il contatto: il tempo di cominciare, quello di continuare con l’energia, quello di arrivare a conclusione con il consegnarsi ed, infine, il tempo di separarsi. A livello clinico, diventa interessante notare come nella seduta i momenti di difficoltà possono essere compresi non solo dai contenuti che stanno emergendo ma dalla scansione temporale della seduta. Il tempo del contatto diventa chiave ermeneutica della relazione terapeutica. In GT si parla, quindi, di tempo vissuto sempre dentro questa parabola dell’episodio di contatto che trova il suo compimento nella grazia del kairòs, del tempo giusto in cui A. e O. si incontrano. Compito del terapeuta, allora, sarà entrare nel ritmo relazionale del paziente, accogliere l’angoscia del contatto e fare emergere la freccia dell’intenzionalità di contatto: solo così il tempo vissuto del paziente e quello del terapeuta troveranno l’accordo che conduce alla pienezza del contatto (296) (hcc Kairos)
In campo psicologico si applica il punto di vista relativistico nella visione della realtà e quindi del tempo: l’esperienza è inscindibile dalla coscienza che la accompagna e il tempo della coscienza sfugge a una misurazione oggettiva, per cui un’articolazione del tempo in sottoritmi corrisponde a una dilatazione dell’esperienza. In musica si sa bene come in uno stesso tempo possano coesistere vari ritmi diversi, di cui uno fa da contenitore all’altro e ne incrementa la qualità: ritmi diversi e dissonanti possono essere uno multiplo dell’altro. Si può considerare la psicoterapia della Gestalt come un lavoro di differenziazione intrapsichica che permette un uso più sofisticato della mente: riuscire a sincronizzare vari ritmi nello stesso tempo è un esempio di questo (IGF)
TEORIA DEL SÉ
“[Il sé è l’] espressione di una interazione all’interno del campo: esso è manifestazione del campo organismo-ambiente ed esiste ogni volta e dovunque vi sia una interazione. Superando ogni dualismo, il sé appartiene sia all’organismo che all’ambiente, si attiva infatti sulla linea di demarcazione lungo la quale passa il contatto tra l’organismo e l’ambiente ed è espressione unitaria di entrambi. Il sé è adattamento creativo nel campo organismo-ambiente” (50 p. 181). “Avendo definito il sé come il sistema complesso dei contatti necessari per l’adattamento in un campo difficile, gli autori di Teoria e pratica della Terapia della Gestalt identificarono determinate ‘strutture speciali’ che il sé crea per ‘scopi speciali’ (219 pp. 184-185)” (339 pp. 75-76). “La funzione es viene definita come la capacità dell’organismo di fare contatto con l’ambiente attraverso: a) lo sfondo dell’esperienza senso-motoria dei contatti assimilati; b) i bisogni fisiologici; c) le esperienze e le sensazioni corporee che sono percepite come se fossero ‘dentro la pelle’ (incluse le situazioni aperte del passato) (219 pp. 184-185)” (339 p. 76). “La funzione-personalità esprime la capacità del sé di fare contatto con l’ambiente sulla base di ciò che si è diventati. ‘La personalità è il sistema degli atteggiamenti assunti nei rapporti interpersonali’ (219 pp. 188-189). Pertanto la funzione-personalità è espressa dalla risposta alla domanda: ‘Chi sono io [in questo momento]?’. [Essa] esprime la capacità di fare contatto con l’ambiente sulla base di una data definizione di sé” (339, p. 78). “La funzione-io opera sulla base di informazioni provenienti da tutte le altre strutture del sé. La capacità di deliberare spontaneamente viene esercitata in armonia con la capacità di contattare l’ambiente attraverso ciò che è percepito come se fosse ‘dentro la pelle’ (funzione-es) e attraverso la definizione data alla domanda ‘chi sono io?’ (funzione-personalità). È la capacità di introiettare, proiettare, retroflettere e di stabilire un contatto pieno” (339 pp. 78-79). (354) (HCC ITALY)
In Gestalt Therapy (GT) la Teoria del Sé riguarda la soggettività in relazione e descrive il contatto tra Organismo (O.) e Ambiente (A.). Il Sé in GT è una funzione, è l’O. in contatto e si dispiega nella sequenza universale del processo figura/sfondo. Il Sé può essere descritto dal punto di vista fenomenologico-relazionale attraverso le sue diverse funzioni: funzione-Es (cosa si sente nel corpo: sensazioni, emozioni, vissuti corporei); la funzione-Personalità (chi sente alla luce di ciò che è diventato: la definizione di sé costruita nel corpo dalle esperienze assimilate; narrazione dell’esperienza); la funzione-Io (cosa si vuole: per far proprio o alienare quello che emerge). A partire da una rilettura della funzione-Personalità si delinea una nuova grammatica della teoria del Sé (306, 328). L’elemento teorico clinico innovativo vede la presenza attiva della funzione-Personalità nel momento stesso in cui emerge il bisogno (funzione-Es). Tale funzione costituisce il ground – insieme alla funzione Es – che risulta coinvolto sin dall’inizio del ciclo di contatto nel facilitare/ostacolare il movimento di avvicinamento all’altro. È tale co-presenza (della funzione-Es e della funzione-Personalità) che dà senso alla funzione-Io. Il disagio nasce quando sono disturbate la funzione-Es (l’O. non sente o distorce le sensazioni corporee) e/o la funzione-Personalità (risulta come grumo di introietti e non di assimilazioni). In questo caso ogni scelta sarà disfunzionale e non nutriente (si è perduta la funzione-Io). La perdita dell’Io è la manifestazione di un sé disturbato in tutte le sue componenti, giacché non si dà alterazione nella percezione del corpo che non influisca anche su alcuni aspetti dell’immagine di sé; così come i disturbi della funzione Personalità – avendo quest’ultima una radice corporea – non possono non coinvolgere la funzione Es (292,299, 306, 307, 309, 316, 323, 328) (hcc Kairos)
TEORIA DEL SÉ (ES)
Riferendoci all’ ‘Es – funzione’ (id-function) “L’Es è lo sfondo dato che si dissolve nelle sue varie possibilità, comprese le eccitazioni organiche, il passaggio alla consapevolezza delle situazioni incompiute del passato, la percezione vaga dell’ambiente, e i sentimenti appena iniziali che connettono l’organismo con l’ambiente” (170, p. 185). “La funzione-es rappresenta lo sfondo dell’esperienza da cui emergono le varie possibilità, il ‘dentro la pelle’, il luogo da cui emerge il bisogno. Comprende i bisogni fisiologici, le situazioni irrisolte del passato e i sentimenti iniziali che connettono organismo con il suo ambiente” (38, p. 182). “La funzione-es viene definita come la capacità dell’organismo di fare contatto con l’ambiente attraverso:[…]
- a) lo sfondo dell’esperienza senso motoria dei contatti assimilati. […] Lo sfondo senso-motorio dei contatti assimilati, allora, appartiene a quelle acquisizioni specifiche relative alla complessità dello sviluppo psicofisico (Piaget J., 1950. The Psychology of Intelligence, New York: Harcourt, Brace) e dell’esperienza corporea (cfr. 120 e 47).
- b) I bisogni fisiologici […] costituiscono l’eccitazione del sé che proviene dall’organismo. Il sé può essere attivato da una eccitazione interna (generata dall’emergenza di un bisogno o di un evento fisiologico) o da un influsso esterno (dato da un evento ambientale). Questa distinzione esiste tuttavia soltanto nella nostra mente, in quanto il sé è una funzione del campo, un processo integrato […].
- c) L’esperienza corporea e ciò che è sperimentato come se fosse ‘dentro la pelle’. Questo terzo aspetto della funzione-es sintetizza i due precedenti, e fornisce un senso di integrazione nell’esperienza di fiducia di base (o di mancanza di essa) nel fare contatto con l’ambiente. Esso riflette il delicato rapporto tra l’auto-sostegno e il sostegno ambientale, tra il senso di pienezza interna e il senso che l’ambiente può essere affidabile. Le due esperienze sono collegate: più si sente la possibilità di affidarsi all’ambiente, più si sperimenta una pienezza interna come rilassamento dell’angoscia o dei desideri fisiologici. Viceversa, più ci si sente sicuri internamente, più è possibile e funzionale affidarsi al mondo” (248, pp.76-78). (HCC ITALY)
Nella lingua tedesca pronome neutro di terza persona singolare equivalente al latino ID. Termine usato da Nietzsche, Groddeck e ripreso da Freud il quale, modificando la prima topica, lo introduce come ‘caos, crogiuolo di eccitamenti ribollenti’ da cui emergono le istanze psichiche di Io e Super-Io.
Nell’approccio gestaltico il termine è stato usato per indicare una delle tre modalità con le quali si esprime il sé, insieme alle funzioni io e personalità, Ma in un approccio fenomenologico non sono considerabili le strutture, quindi l’ es può essere considerato, al massimo, una modalità dell’essere della persona nella fase di pre-contatto (IGF)
TEORIA DEL SÉ (IO)
Riferendoci all’ ‘Io-funzione’ (in inglese Ego-function) “L’Io è l’identificazione progressiva con le varie possibilità nonché la loro eventuale alienazione, la limitazione e l’intensificazione del contatto attuale, compreso il comportamento motorio, l’aggressione, l’orientamento e la manipolazione” (219 p. 185). “La funzione-io esprime […] la capacità di identificarsi o di alienarsi da parti dell’ambiente (questo è per me, non è per me), il potere di volere e di decidere ciò che caratterizza l’unicità delle scelte individuali. […] interviene nel processo dell’adattamento creativo operando scelte, identificandosi con alcune parti del campo e alienandosi da altre. L’io è quella funzione del sé che dà all’individuo il senso di essere attivo e deliberato. Il sé spontaneamente esercita questa intenzionalità e la sviluppa con forza, consapevolezza, eccitazione, e capacità di creare nuove figure” (339 pp. 78-79). “In una visione olistica del sé, l’io funziona in modo integrato in un continuo interscambio con le altre funzioni. In particolare, la funzione io rappresenta la capacità creativa del sé che agisce tenendo conto delle informazioni derivanti dalle funzioni es e personalità (50 p. 182). “La funzione-io consente lo sviluppo dell’eccitazione collegato con l’emozione: per esempio, introiettando (definendo l’esperienza come ‘sono emozionato, questo va bene’); o proiettando (notando l’eccitazione anche nell’ambiente, per esempio dicendo qualcosa del tipo ‘posso vedere che anche altre persone sono emozionate’); o retroflettendo (evitando il contatto pieno con l’ambiente, respingendo o riportando l’energia su di sé, per esempio ‘voglio gestire questa esperienza da solo’). I fondatori descrivono queste funzioni-io sia come capacità di fare contatto che come resistenze ad esso (perdita delle funzioni-io) (339 p. 79; 354) (HCC ITALY)
La funzione-Io costituisce per gli Autori di Gestalt Therapy la parte organizzante del Sé (219). E’ quella funzione del Sé che dà alla persona l’intima sensazione di essere attiva ed intenzionale e può essere descritta come la capacità di scegliere ciò che si ritiene appropriato integrando le istanze della funzione-Es e quelle della funzione-Personalità: dentro le sensazioni ed emozioni del corpo che si attiva per una intenzionalità (‘cosa sento’; ‘verso dove voglio andare’) e la consapevolezza corporea di ciò che si è diventati (‘chi sono io che sento’) la funzione-Io del sé è quella che porta all’ ‘adattamento creativo’ come migliore espressione della potenza creativa del Sé. Essa non consiste nel trovare un mero compromesso tra istanze in competizione tra loro, bensì nell’inventare una ‘terza soluzione’ che sia in armonia, al contempo, con i vissuti corporei del qui e ora (funzione-Es) e con gli apprendimenti stratificati nel tempo, che consentono di riconoscersi in una certa descrizione verbale di sé (funzione-Personalità) (306). La crescita dell’organismo avviene quando la funzione-Io crea una novitas in un presente vibrante che risulta dalla funzione-Es che punta verso il futuro (verso ciò che si vuole diventare) e dalla funzione-Personalità che è il fisiologico radicamento in ciò che si è diventati. I fondatori sottolineano, inoltre, che il processo di identificazione/alienazione che caratterizza la funzione-Io è legato allo sfondo e non alla figura: «L’Io funzionerà bene se si identificherà con sfondi che effettivamente svilupperanno figure buone, purché questi sfondi abbiano energia e probabilità» (219, p. 217-218). Pertanto a decidere non è l’Io o la funzione-Io, ma tutto il Sé attraverso la funzione-Io. Alcune caratteristiche del Sé quando mette in atto la funzione-Io sono: essere sveglio, vigile, attento e attivo; le sue funzioni specifiche: identificare, alienare, deliberare (320) (hcc Kairos)
TEORIA DEL SÉ (PERSONALITÀ)
Il termine personalità in Gestalt ha origine da una trasformazione paradigmatica che ingloba il passaggio da una concezione di linearità causale dei processi psichici verso una prospettiva di tipo circolare che trae le basi dalla Teoria del Campo di Kurt Lewin. In base a questo costrutto nessun tipo di personalità è inscindibile dalle sue relazioni con l’ambiente al di fuori del campo organismo-ambiente di cui fa parte così come nessun essere umano può essere compreso al di fuori delle sue relazioni interpersonali laddove la descrizione dell’ambiente assume le caratteristiche della percezione soggettiva di chi quel l’ambiente lo vive. Pertanto parlare di sé diviene “parlare di sé in relazione” grazie al meccanismo del “contatto” con l’ambiente circostante ed al confine che consente sia l’individuazione e la separazione dall’altro, sia la relazione. È attraverso le funzioni di contatto e di separazione che l’individuo stabilisce i suoi confini e costruisce la propria identità apprendendo consapevolezza delle proprie necessità e dei propri bisogni dall’esperienza e a riconoscere ciò che è dannoso per respingerlo come “non assimilabile”. Nel confine del contatto si forma la funzione del “sé”, che non è più un apparato psichico ma una funzione che interagisce nel campo organismo-ambiente. Questa funzione nella P.D.G è articolata in tre aspetti: funzione Es, funzione Personalità e la funzione Io. La funzione Es riconduce al contatto con il Mondo interno (dimensione organismica ma anche fantasmatica), la funzione Personalità è il risultato delle esperienze e dei contatti con il proprio ambiente e la funzione Io è l’identificazione o l’alienazione di parti di sé grazie alla volontà. (219, 379, 387, 57) (CSTG)
Riferendoci alla ‘Personalità – funzione’ (in inglese Personality-function) “La Personalità è il sistema degli atteggiamenti assunti nei rapporti interpersonali; è l’assunzione di ciò che l’individuo è, e serve da sfondo sulla cui base si potrebbe spiegare il proprio comportamento, se tale spiegazione fosse richiesta […] sostanzialmente, è una copia verbale del sé” (219, pp. 188-189).
“La funzione personalità indica ciò che il sé è diventato assimilando all’organismo i risultati dei contatti avuti in precedenza; […] Comprende l’assimilazione dei cambiamenti connessi con la crescita, quali il divenire adulto, partner, genitore” (50, p. 182).
“La funzione-personalità esprime la capacità del sé di fare contatto con l’ambiente sulla base di ciò che si è diventati. […] riguarda il modo in cui creiamo i nostri ruoli sociali (per esempio, diventiamo uno studente, un genitore, ecc.), assimiliamo i contatti precedenti e ci adattiamo creativamente ai cambiamenti imposti dalla crescita. Pertanto, uno degli aspetti fondamentali che il terapeuta deve guardare con attenzione è il funzionamento del sé a livello della funzione-personalità. Per esempio, un bambino di 8 anni usa spontaneamente il linguaggio adatto per la sua età? Se si esprime con un linguaggio adulto, questo fatto potrebbe essere considerato (in quanto modalità di contattare l’ambiente) come espressione di un disturbo della funzione-personalità. La stessa cosa può dirsi di una donna di quarant’anni che parla con una ragazzina di sedici, o di una madre che si comporta con i figli come un amica o una sorella, o di uno studente che si comporta come un professore, e ovviamente di un paziente che si definisce come una persona che non ha bisogno di aiuto” (339, p. 78). (354). (HCC ITALY)
La funzione-Personalità del sé necessita di una innovativa rilettura. Nella vulgata gestaltica la funzione-Personalità del sé è stata – erroneamente – confinata nella fase del post-contatto. Dopo il contatto pieno, l’O. entra nella fase misteriosa dell’assimilazione inconsapevole (compito specifico della funzione-Personalità). La Personalità diventa così memoria corporea dell’Ambiente, ossia dell’Altro che l’Organismo ha incontrato con pienezza: diventa ‘biografia vissuta’, ‘Sè autobiografico’ direbbe Damasio (52). Una rilettura del testo di Perls-Hefferine-Goodman mostra, invece, la presenza attiva e decisiva della funzione-Personalità nel momento stesso in cui emerge il bisogno (funzione-Es): la ‘funzione-Personalità è figura (e non sfondo) agli inizi del ciclo di contatto (328). Il ‘cosa sento’ della funzione-Es va sempre coniugato con il ‘chi sono io che sento’ della funzione-Personalità (216, 306). Quando la sensazione che porta verso il next step (‘mi piace, voglio il dolce’) entra in conflitto con il corpo biografico (‘sono diventato diabetico’) allora accade il polemos che invoca la funzione-Io del sé per una soluzione. Nella Gestalt Therapy l’integrazione tra le istanze delle due funzioni (Es e Personalità) viene creata dalla funzione-Io che opera un ‘adattamento creativo’. La co-presenza (della funzione-Es e della funzione-Personalità) dà senso alla funzione-Io nel suo compito di alienare o assimilare il nuovo che risulta dalla piena espressione e dal radicale confronto tra le due funzioni (Es e Personalità). L’intima connessione tra funzione-Es e funzione-Personalità nella fase iniziale non solo costituisce un’originale, necessaria e coerente prospettiva teorica ma presenta valide ed efficaci declinazioni cliniche (307). Nella teoria evolutiva gestaltica, inoltre, riletta in modo accurato, è ovvio che ogni disturbo della funzione-Es accade perchè è in atto un disturbo della funzione-Personalità (hcc Kairos)
“La personalità è un sistema degli atteggiamenti assunti nei rapporti interpersonali, è l’assunzione di ciò che l’individuo è e serve da sfondo sulla cui base si potrebbe spiegare il proprio comportamento. (…). Quando il comportamento interpersonale è nevrotico, la personalità è costituita da un certo numero di concezioni errate di se stessi, di introietti, di ideali dell’Io, di maschere, ecc” (219).
La psicoterapia della Gestalt invita ad essere come si è, seguendo la propria naturalezza, è un tornare a casa, all’interiorità, che pacifica la mente. Questo comporta il togliere le maschere, il recupero delle parti rinnegate di sé e l’accettazione del limite. Paradossalmente, l’impegno ad essere diverso blocca il cambiamento. La meta è quella di lasciar fluire la coscienza e l’azione conseguente, in un continuo consapevole di esperienza. Il terapeuta dà il permesso e il paziente apprende ad affermare il diritto di essere per quello che è (64).
- Naranjo, con la sua carattereologia degli Enneatipi, offre una visione integrativa che mette insieme i tratti, le motivazioni, gli stili cognitivi e la dimensione esistenziale della personalità(205) (IGAT)
L’insieme delle strutture, dei meccanismi, degli eventi elaborati nel tempo in cui l’io ed il libero arbitrio si disputano il controllo del comportamento di una persona (IGF)
TEORIA DEL SÉ (SÉ)
Il Sé – come sappiamo – viene definito da Perls come la funzione di adattamento creativo, il risultato di una complessa interazione tra un organismo ed un ambiente nel contatto reale che tra i due si stabilisce in un luogo ed in un tempo definiti. Come si può notare, al concetto di Sé possono darsi differenti connotazioni; possiamo quindi prendere in considerazione più livelli del Sé: 1. il Sé organismo (che in questo caso scriviamo con la “s” minuscola, come Perls preferisce, riferendosi a livelli elementari di interazione); 2. il Sé persona, come unica ed irripetibile modalità-di-essere-nel-mondo di un certo individuo (per cui si preferisce la “S” maiuscola in quanto indicativa di una persona); 3. il Sé transpersonale, come indicativo di una particolare forma di realizzazione della persona che ha raggiunto o si avvicina alla realizzazione del suo potenziale umano e si pone in relazione con l’Altro (individuo, società, mondo); 4. il Sé trascendente, come entità (per chi aderisce a tale concezione) che trascende la corporeità e definisce l’elemento immateriale ed eterno (anima o psyché in senso platonico). È fin troppo evidente che gli strumenti teorico-metodologici per studiare questi diversi livelli di realtà sono assai lontani. Se per i primi livelli è proporzionato e necessario il ricorso al metodo scientifico galileiano, lo stesso risulta inadeguato per i livelli più evoluti dell’organizzazione psichica, sociale e spirituale. Tale distinzione si presenta tuttavia problematica dal momento che il livello corporeo, psicologico e spirituale rientrano in un unico processo che ha a che fare con la crescita dell’individuo. La stessa consapevolezza ha di per sé una potenzialità transpersonale e, ben coltivata, porterà come “in un piano inclinato” – per usare una espressione felice di Plotino – verso livelli più ampi e comprensivi di esperienza e di partecipazione al tutto (386, 402, 406, 407, 408) (CSTG)
“Il sé […] è concepito in Teoria e pratica della Terapia della Gestalt come la capacità dell’organismo di fare contatto con il proprio ambiente – in modo spontaneo, deliberato e creativo. La funzione del sé è di contattare l’ambiente” (339 p. 74). “Chiamiamo ‘sé’ il complesso sistema di contatti necessario per l’adattamento in un campo difficile” (219 p. 180). “La teoria della psicoterapia della Gestalt studia il sé come una funzione del campo organismo-ambiente in contatto, non come una struttura o un’istanza. Questo approccio si basa non tanto su un rifiuto dei contenuti o delle strutture, ma semplicemente sulla convinzione che il compito di chi studia la natura umana è di osservare i criteri che producono spontaneità, non i criteri che consentono di schematizzare il comportamento umano” (339 pp. 74-75). “Nelle situazioni di contatto il sé è il potere che forma la gestalt nel campo; o meglio, il sé è il processo della figura/sfondo nelle situazioni di contatto” (219 p. 180). “[Le funzioni del sé] sono gruppi di esperienze attorno a cui si organizzano degli aspetti specifici del sé” (339 p. 75). “[…] gli autori di Teoria e pratica della Terapia della Gestalt identificarono determinate ‘strutture speciali’ che il sé crea per ‘scopi speciali’ (219 p. 184-185). […] L’es, l’io e la personalità sono semplicemente tre delle molte strutture esperienziali possibili; sono intese come esempi della capacità della persona di relazionarsi con il mondo” (339 p. 75-76). (354) (HCC ITALY)
TEORIA EVOLUTIVA
Ogni bambino segue, con una forza e un impegno a volte disperati, la sua potente spinta naturale a prendere la sua forma unica e irripetibile, anche quando l’ambiente educativo intervenga in modo abusante rispetto alla sua forma autentica, limitando e depotenziando l’espressione del suo Sé. In ogni caso il bambino sceglie la linea di comportamento che gli possa consentire il soddisfacimento dei suoi bisogni. Così per l’espressione dei sentimenti repressi: l’organismo li esprimerà comunque, anche con un mal di testa o un mal di pancia. Userà ogni mezzo per prendersi cura di sé come può, per costruire il senso di Sé. In questo senso ogni manifestazione di disagio, ogni sintomo è l’espressione della cosa migliore che, nel loro campo energetico-esistenziale, bambini e ragazzi ritengono di poter fare per crescere. L’intervento terapeutico è orientato al processo e focalizza l’attenzione sulla salute dell’intero organismo, comprendendo i sensi, il corpo, le emozioni e la razionalità. Caratteristiche essenziali: confronto aperto sul problema; inclusione delle parti coinvolte nel campo (famiglia, scuola, ecc.); partecipazione attiva del bambino/ragazzo al processo (rapporto dialogico IO-TU) e assunzione di responsabilità (nei limiti delle sue abilità e competenze evolutive); accoglienza della resistenza come una risposta sana, alleata del bambino; proposta di ogni immaginabile mezzo espressivo per facilitare il rafforzamento del Sé; presenza attiva del terapeuta nelle attività ludico-espressive; valenza fondamentale dell’esperienza come fattore di consapevolezza. Permettergli di apprendere attraverso la scoperta (piuttosto che con l’esercizio e la ripetizione) sostiene la fiducia nelle sue capacità di autosostegno e restituisce forza al suo Sé (156, 209, 210, 216, 355, 372) (ASPIC)
Utilizzando una ‘prospettiva evolutiva’ in psicoterapia della Gestalt, Margherita Spagnuolo Lobb ha coniato il termine Sviluppo polifonico dei domini “per indicare la complessità che anima il fare contatto nel presente, attraverso il sostegno di diverse competenze, armonizzate tra loro” (340, p. 39). “[…] essere confluenti, introiettare, proiettare [sono] delle modalità di contatto di cui il bambino è capace e che continuano a svilupparsi nel corso della sua vita” (340, p.40). “Il dominio può essere definito in psicoterapia della Gestalt come un’area di processi e competenze per il contatto, che appartiene allo sfondo dell’esperienza, e che è pronto a diventare figura in certi momenti, e ad interagire con altre capacità, o domini. […] si riferisce a competenze chiaramente differenziate, che hanno uno sviluppo proprio durante tutto l’arco della vita, e che interagiscono reciprocamente dando origine all’armonia (potremmo anche dire alla gestalt) della competenza attuale della persona” (340, p. 34).
“La prospettiva evolutiva della psicoterapia della Gestalt ci induce inoltre ad allargare la prospettiva di osservazione del bambino al campo fenomenologico in cui è inserito ed alla reciprocità, al reciproco muoversi-verso-l’altro che caratterizza la nostra vita. In altre parole, la melodia che il bambino impara a suonare fa parte a sua volta di un’opera musicale più ampia, che si crea nel campo fenomenologico, e che è anch’essa un adattamento creativo. […] Bambino e caregiver creano insieme il loro incontro, in una zona di confine che la psicoterapia della Gestalt ben definisce come “confine di contatto”, in una logica esperienziale, processuale e fenomenologica” (340, pp. 40-41). (HCC ITALY)
La Gestalt Therapy legge lo sviluppo del bambino come risultato dell’interazione e del contatto tra bambino e figure genitoriali. Secondo la teoria evolutiva gestaltica, la crescita, non è regolata solo dai cambiamenti che avvengono nei corpi (intrapsichici,) ma soprattutto dai vissuti relazionali che avvengono tra i corpi e che cambiano nelle varie fasi dello sviluppo (299). Lo sviluppo corporeo avviene in un campo relazionale in cui si apprendono gli schemi dell’esser-ci-tra (310): il corpo del bambino prende forma all’interno di una relazione che si autoregola e man mano che si modificano i corpi del bambino e di chi se ne prende cura, si modifica il confine di contatto (218). Sebbene si riconosca l’eredità di Freud e della sua intuizione che attribuisce al corpo un importante ruolo nello sviluppo del bambino, la teoria evolutiva gestaltica si differenzia dalle teorie evolutive precedenti, che leggevano tale sviluppo in termini intrapsichici, evidenziando invece l’importanza dei vissuti corporeo-relazionali (311). La Gestalt Therapy rilegge, infatti, la teoria evolutiva evidenziando come il bambino apprende i significati intimi dell’esistenza a partire dall’esperienza corporeo-relazionale che conduce progressivamente all’emergere della consapevolezza del Sé, integrando la teoria del processo dal Noi all’Io-Tu (293, 294) con la dimensione intercorporea. Questo appresenta un cambiamento di paradigma che poggia su una visione triadica della relazione (309): il vissuto di ogni genitore si intreccia con quello dell’altro, determinando la qualità del legame affettivo e la capacità genitoriale del prendersi cura ed influenzando la crescita affettiva e relazionale del figlio (301). Risulta altresì determinante come ogni genitore vive il rapporto dell’altro genitore con il figlio e di come è in grado di includere la sua funzione genitoriale (co-genitorialità) (51, 309) (hcc Kairos)
TEORIA FAMILIARE
“Per la psicoterapia della Gestalt, la sofferenza delle relazioni familiari dipende sempre dalla mortificazione dell’intenzionalità di contatto dei membri. Il non essere riconosciuti nella tensione al contatto provoca nei membri della famiglia, e in particolare nei bambini, la perdita del senso di sé: non ci si riconosce nella direzionalità del proprio essere” (339, p.186). “[…]ciò che mantiene la sanità, come sostiene Bowen (23), è la possibilità dei membri di individuarsi, in linguaggio gestaltico di realizzare l’intenzionalità di contatto, quel processo relazionale che permette l’individuazione del sé. […] per rispondere in modo mirato alla richiesta di terapia, e rimanere fedeli all’epistemologia fenomenologica [ed estetica] del qui-e-ora, occorre considerare una variabile processuale e situazionale importante, che è lo strutturarsi della determinazione di andare in terapia” (339, p.187). “Il modo in cui entra in contatto con il terapeuta reca in sé la richiesta di sostegno specifico. Il terapeuta gestaltico deve guardare a questo fattore per così dire ‘estetico’, intrinseco alla struttura dell’esperienza familiare stessa […]. La terapia familiare gestaltica non è centrata né sul sintomo né sulla fase evolutiva che la famiglia attraversa, ma sull’atto creativo del chiedere aiuto all’ambiente” (339, pp. 188-9). “[…] ci sono aspetti epistemologici specifici della psicoterapia della Gestalt da tenere in considerazione, quali il concetto di campo fenomenologico, che è diverso dal concetto di sistema, e l’intenzionalità di contatto, la cifra ermeneutica con cui leggiamo ogni accadimento familiare, che il terapeuta della Gestalt sostiene e riconosce” (339, p. 193). “Il modello di intervento familiare gestaltico qui presentato comprende quattro passi e rappresenta una mappa da seguire in ogni seduta.
Step 1 – Lo sfondo è l’accoglienza. La figura è il contenimento attraverso le regole[…].
Step 2 – Lo sfondo è l’acquisizione del linguaggio della famiglia, la figura è l’evolversi delle intenzionalità di contatto interrotte dei membri […].
Step 3 – L’evolversi dell’intenzionalità di contatto è lo sfondo, l’esperimento è la figura […].
Step 4 – La pienezza è lo sfondo, la fiducia nel futuro la figura” (339, pp. 203-206). (HCC ITALY)
La storia della terapia familiare in Gestalt Therapy è scandita da fasi ben precise: la prima mette l’esperienza al centro dell’intervento, la seconda focalizza il ciclo di contatto tra i vari membri della famiglia e la terza, qui descritta, include e integra le due precedenti, ponendo come chiave di lettura e di intervento la teoria del Sé (219) e le sue tre funzioni: funzione-Es, funzione-Personalità e funzione-Io. Il punto di partenza per un lavoro con la famiglia è il considerarla come una Gestalt, una totalità che dà struttura, dove il sintomo costituisce la figura rispetto alla trama relazionale. Il sintomo è “un appello alla relazione” (326, 330) e in esso è racchiusa la direzione del cammino di crescita della famiglia, cioè il prossimo passo del ciclo vitale dove la famiglia può – deve – andare. Nella teoria del Sé applicata alla famiglia (301), la funzione-Es riguarda l’intercorporeità e la prossemica: in che modo i corpi si incontrano o si evitano, sperimentano il fallimento o la realizzazione dell’intenzionalità di contatto. La funzione-Io del Sé fa riferimento alla qualità del contatto (interruzioni del ciclo di ‘contatto/ritiro dal contatto’) tra i membri della famiglia. E, infine, la funzione-Personalità del Sé famiglia riguarda l’assimilazione corporea (il sé biografico di cui parla Damasio) (52) della propria identità familiare nelle sue molteplici declinazioni: partner, genitore, figlio, fratello. In modo specifico in tale modello – denominato “danza delle sedie e danza dei pronomi” (323) – si sottolinea come la funzionalità di una famiglia ha come sfondo e matrice la qualità del contatto tra la coppia genitoriale, che risulta dalla funzione-Personalità e dalla funzione-Es del Sé. Attraverso la “danza delle sedie” (ossia cambiare sedia per favorire e ripristinare nuove prossemiche funzionali) si riattivano le funzioni del Sé, in primis quelle della coppia genitoriale e poi quelle degli altri membri. Da questo cambiamento di postura intercorporea ha luogo “la danza dei pronomi” in cui i terapeuti facilitano e fanno emergere l’io di ogni membro della famiglia come soggetto che si auto-rivela. Punto focale della terapia familiare gestaltica nel modello della “danza delle sedie e danza dei pronomi” è ricostruire il confine di contatto tra genitori e figli, ovvero, la funzione-Personalità dei genitori (hcc Kairos)
La famiglia è un organismo dinamico e non segue uno scorrere uniforme ma si definisce in relazione all’integrarsi di esperienze che rendono obsoleto l’equilibrio precedentemente acquisito e richiedono una nuova riorganizzazione. Quando un elemento si modifica, tutto il sistema familiare attraversa una crisi per affrontare un adattamento alla nuova situazione, mantenendo attivo il contatto reciproco e rispondere ai nuovi e mutati bisogni di ciascuno.
La terapia familiare agevola il mantenimento di un “noi”, in cui ciascuno possa riconoscersi come appartenente, pur nella sua individualità, e possa affrontare in maniera costruttiva i cambiamenti che si presentano nei momenti critici, in risposta ai nuovi bisogni che emergono nel corso dello sviluppo dei singoli e dell’intero sistema nelle diverse fasi dell’esistenza.
In tale processo di adattamento, ciascuno si assume la responsabilità dell’esistenza propria ed altrui, fondata sul dare valore e quindi senso, riconoscendo la specificità di sé e dell’altro, quali basi di sicurezza e di fiducia (255).
La terapia si fonda sulla costruzione di una relazione collaborativa basata su una motivazione comune a cogliere in senso evolutivo, per l’intero sistema familiare, il comportamento di uno dei suoi componenti vissuto come problematico da altri componenti del nucleo. Il terapeuta si mantiene “equivicino” ai singoli per consentire l’evoluzione di ciascuno e dell’intero sistema familiare (IGF)
TRANSFERT
La relazione di transfert è l’esperienza di desideri e timori inconsci trasferiti sul partner terapeutico. Secondo alcuni autori, essendo il transfert un fenomeno umano è identico in tutti i tipi di psicoterapia; l’unica differenza essendo il modo in cui i fenomeni transferali verranno gestiti da ogni modello e situazione. Nella terapia della Gestalt viene accentuata la formazione “figura/sfondo” durante l’esperienza di con-tatto. Nel lavoro gestaltico il transfert è un elemento della terapia che va dissolto attraverso la consapevolezza prima del terapeuta e successivamente del cliente, attraverso la messa in azione catartica di un vissuto o di un rivissuto emotivo, in modo che il soggetto possa superare i blocchi di una primitiva ambivalenza pulsionale. L’esplorazione del transfert attraverso movimenti regressivi permette un movimento di consapevolizzazione alternato tra passato e presente.
La consapevolezza avviene dirigendo l’attenzione del paziente verso le proprie sensazioni, sentimenti e pensieri nel QUI e ORA e non verso il passato futuro. Di sperimentare il reale piuttosto che immaginarlo e generare dialoghi con figure significative chiarendo le “questioni in sospeso” (90, 104, 94, 98, 115) (ASPIC)
Noi “siamo la nostra storia” ed è quindi inevitabile che i sedimenti della nostre relazioni primarie si ripresentino nella attualizzazione delle nostre relazioni “attuali”. Importante è esserne consapevoli imparando a stare nel doppio “registro” di ciò che è nuovo e ciò che rappresenta una riedizione di antiche modalità di relazione. Mentre la psicoanalisi enfatizza il fenomeno transferale – “non c’è psicoanalisi senza traslazione” (385) – rispetto alla relazione intersoggettiva, la Terapia della Gestalt inverte il rapporto figura/sfondo privilegiando la relazione interpersonale adulta sulla proiezione fantasmatica infantile. La declinazione spazio-temporale nel qui-e-ora, nella quale unicamente avviene l’esperienza, pone il presente “in figura” nella prospettiva gestaltica, lasciando quindi il passato “sullo sfondo” contrariamente alla prospettiva psicoanalitica che sovra-enfatizza il passato a cui collegare l’origine delle proiezioni transferali. Definendo la terapia della Gestalt una “terapia per sani”, Perls enfatizza la posizione adulta del paziente che viene chiamato implicitamente ad una maggiore assunzione di respons-abilità che se fosse “fissato” nella posizione di paziente (passiva, appunto) anziché attiva (come soggetto ad-gressivo agente). Sul tema della possibile erotizzazione della relazione terapeutico-transferale merita richiamare A. Carotenuto che sintetizza come “Chi abbraccia la nostra professione sceglie un lavoro che comporterà una serie interminabile di rinunce libidiche, perché vivrà e opererà nell’amore, e l’amore è sempre una “promessa”. Ma l’analista che “cade in amore” non può permettersi il lusso di desiderare che la promessa, che inevitabilmente accompagna il sentimento, si realizzi. Il paziente ha il diritto di desiderare l’impossibile, ma il terapeuta ha il dovere di “contenere” il sentimento del paziente; non di respingerlo, né spegnerlo, ma appunto di accoglierlo e dargli forma” (387) (CSTG)
Trasferimento, vale a dire proiezione, e in sostanza riconoscimento, di immagini e situazioni dove queste non sono realmente presenti, ma semplicemente costellate, come sui radi e insignificanti punti luminosi delle costellazioni del carro veniva riconosciuta dagli antichi l’immagine dell’orsa. Si tratta di un meccanismo che non ha necessariamente a che fare con la patologia: una caratteristica del percepire è il processo di interpolazione, cioè la ricostruzione e il riconoscimento di un’immagine a partire da un numero limitato di punti disponibili. Il transfert è quindi nient’altro che una operazione di riconoscimento fatta con dati insufficienti e che ignora tutto quello che potrebbe contraddirla: una polarizzazione cioè dell’attenzione su una realtà parziale. Nella teorizzazione di Paul Goodman il sé si determina al momento del contatto e il disturbo, cioè la non corrispondenza a se stessi, è correlata con l’insufficienza del contatto. Metaforicamente parlando, si potrebbe immaginare una mano che sta toccando qualcosa che non c’è invece di appoggiarsi sull’oggetto che ha di fronte (anche se magari in parte lo tocca, nei punti cioè dove l’oggetto fantasma e quello reale corrispondono). E’ come quindi se questa mano avesse un pregiudizio, un’idea precostituita di come deve essere l’oggetto, e si rifiutasse di adeguarsi alla realtà: cioè in definitiva la mano evita di esperire quello che c’è (IGF)
VISSUTO
Il vissuto è da intendere come l’insieme delle relazioni che caratterizzano il rapporto tra la persona e il suo stesso mondo, nei suoi tratti strutturali e costitutivi, il cui manifestarsi è espressione della struttura globale dell’individuo in una dinamica consapevole e progettuale (15, 60) (ASPIC)
Insieme di eventi ed emozioni che costituiscono la storia personale e che conserva una pregnanza nella vita e nella memoria dell’individuo attuale. Si caratterizza per la vividezza con cui emergono emozioni antiche attraverso immagini o situazioni reali in contesti attuali (61, 79, 43, 86) (CSP/IGA)
La cifra della relazionalità – che per la Gestalt Therapy è centrale e decisiva nell’insorgenza, nella manifestazione e nella cura della psicopatologia – si coglie nei vissuti corporeo-relazionali. La GT focalizza la relazione tra il soggetto e l’altro nei vissuti relazionali (cosa sento nei confronti dell’altro) che, a loro volta, hanno un’inevitabile matrice corporea. Il ‘come mi sento di fronte all’altro’ è innanzi tutto avvertito e scritto nel corpo (299, 311). I ‘vissuti corporei’ esprimono in modo genuino i significati più intimi del soggetto: come una bussola, essi indicano al soggetto stesso come egli sta vivendo la situazione (e cioè i significati più intimi del suo-essere-nel-mondo-in-questo-preciso-momento). E’ una svolta epistemologica: si passa dall’idea che il comprendere accada solo a livello cognitivo alla prospettiva che il comprendere (e l’apprendere) emerge dai vissuti corporei. Cosa succede nel corpo del terapeuta e in quello del paziente quando sono nella ‘traità’ corporea dell’incontro terapeutico è l’interesse primo del lavoro terapeutico (293, 294, 307); come individuare l’interruzione della sequenza processuale dell’incontro (che produce ‘sintomi’, cioè parole e azioni ‘instead of’, ‘al posto di’), come trattarla, come ‘dare sostegno’ al corpo impaurito, come riaprire la possibilità di una respirazione che scorra spontanea verso il compimento dell’intenzionalità di relazione, restano i compiti aperti della terapia e dell’esistenza (hcc Kairos)
Quanto si è sperimentato nel passato, e che conserva una sua presenza attuale nella memoria e nella coscienza: in particolare l’insieme degli eventi che costituiscono le storie di un individuo, in quanto suscettibili di emergere immediatamente alla coscienza sotto forma di immagini concrete o di rappresentazioni simboliche, senza condizionamenti di natura concettuale (IGF)
Insieme di esperienze sperimentate che hanno lasciano una traccia emotiva significativa per la persona, l’insieme di queste costituisce la storia di ogni individuo. Attraverso questi elementi emotivi significativi si dipana il racconto di ogni individuo sotto forma di immagini, storie e sensazioni (IPGE)
VUOTO
Il vuoto è un sentimento che si sperimenta dopo il soddisfacimento di un bisogno, quando procediamo alla chiusura del confine, al ritiro. Il vuoto è il “punto zero”, uno stato precedente al momento in cui un nuovo bisogno prende forma, è cioè uno stato in cui non esistono né figura né sfondo. Il concetto di vuoto si riferisce anche al senso di vuoto e all’esperienza di smarrimento che si sperimenta di fronte alla perdita, in generale, e alla perdita dell’altro, in particolare, che è anche sempre una perdita di sé (98, 115, 114, 356) (ASPIC)
Il vuoto fertile è un concetto non facilmente definibile, che caratterizza fortemente l’approccio gestaltico. Secondo F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, “L’individuo capace di tollerare l’esperienza del vuoto fertile, sperimentando fino in fondo la propria confusione e che riesce a diventare consapevole di tutto quanto richiama la sua attenzione (allucinazioni, frasi interrotte, sentimenti vaghi, strani) avrà una grande sorpresa, vivrà probabilmente un’esperienza “Ah, ah!”; all’improvviso apparirà una soluzione, un insight fin ad ora inesistente, un lampo di comprensione o percezione… La parte più difficile dell’intero esperimento è quella di astenersi dall’intellettualizzare e dal verbalizzare il processo in atto…. L’esperienza del vuoto fertile non è né oggettiva, né soggettiva. Non è neanche un’introspezione. Semplicemente è. E’ la consapevolezza senza speculazione sulle cose di cui si è consapevoli” (219, pg. 94-95).
In tale attitudine confluiscono più elementi: la fiducia nei processi autoregolativi e autoplastici, l’impostazione maieutica e non intellettualistica: “più che specifiche tecniche e concetti il terapeuta dovrà acquisire una particolare qualità della presenza: ‘Quando lavoro io non sono Fritz Perls, divento uno zero, un niente, un catalizzatore”. (216, pg. 208).
Questa condizione è il risultato di un preciso addestramento: “bisogna cercare di esercitarsi ad ascoltare i propri pensieri. Dopo aver padroneggiato l’ascolto interno, potrete procedere all’esercizio fondamentale, quello dell’allenamento del silenzio interiore”. (218, 225).
Tali intuizioni, che già caratterizzavano il lavoro di Perls nel periodo sudafricano, si affinarono a contatto con gli influssi dello Zen, in particolare rispetto al concetto di hishiryo, il “non pensiero”, atteggiamento tipico anche del continuum di consapevolezza. (86, pg. 101-102) (CSTG)
Concetto cardine della filosofia gestaltica utilizzato da F. Perls in una duplice accezione: terapeutica e ontologica. Nella prima accezione il vuoto fertile rappresenta l’evoluzione creativa, per contrasto, del vuoto sterile, che se vissuto e attraversato può trasformarsi e dare luogo a insight. Il vuoto sterile si manifesta come blocco nel continuum di consapevolezza: il paziente non riesce a prendere contatto con alcune aree della sua esperienza, sperimentando uno stato di confusione associato ad un senso di svuotamento. Se non tollera questa condizione di vuoto, il paziente la riempie di interpretazioni e razionalizzazioni. Il terapeuta frustra gli evitamenti e lo invita invece ad attraversare consapevolmente il vuoto sterile, attraverso il ritiro nel vuoto fertile. Se invece il paziente ha il coraggio di restare nel vuoto e di tollerare il disagio, la confusione può trasformarsi in chiarezza. Apparirà un insight che determinerà il passaggio dall’evitamento al contatto, dallo stato fobico a quello esplosivo della personalità, aumentando così l’autoappoggio. Perls attribuiva molta importanza a questa fase del processo terapeutico, tanto da definire la Gestalt come la terapia della trasformazione del vuoto sterile in vuoto fertile. Nella sua valenza ontologica, il vuoto fertile è sovrapponibile al concetto di indifferenza creativa, che Perls mutuò da S. Friedlander. Rappresenta il punto zero, la neutralità originaria, il nulla generativo da cui si differenziano gli opposti e tutte le polarità. C. Naranjo ha messo in evidenza la coincidenza del vuoto fertile non solo con la sunyata, vacuità, del buddhismo Mahayanico, ma soprattutto con il principio Apollineo, complementare a quello Dionisiaco e con esso fondamento spirituale di una gestalt viva (206) (IGAT)
La fisica classica considera il vuoto come il contenitore del pieno: analogamente, sul piano psichico si considera vuoto l’assenza di elementi percettibili. L’esperienza differenzia però due tipi di vuoto, quello sterile, che rimane vuoto finché non ci si mette qualcosa dal fuori, e quello fertile, in cui si generano spontaneamente elementi nuovi dall’interno. Nell’approccio gestaltico il vuoto fertile è il luogo della trasformazione terapeutica: corrisponde in realtà a quello che nella psicanalisi è la libera associazione, o per meglio dire all’analogico, che procedendo per analogie e non per connessioni biunivoche, pescando nell’immaginario, apporta ogni genere di elementi utili a nuove creazioni (IGF)
In Gestalt si differenzia tra vuoto sterile e vuoto fertile. Il vuoto sterile è un vuoto in attesa di essere riempito, un vuoto che viene vissuto soffertamente come “buco esistenziale”, ovvero da un senso di “mancanza” e che porta alla richiesta “fai tu per me” (167). La conseguenza è una passività sofferta e la non-responsabilità nei confronti della propria vita e il mondo. Il vuoto fertile è un momento di neutralità e di indifferenza creativa che “non è un mancanza d’impulso, ma sta al di là di tutti i nostri impulsi in conflitto, nella nostra interiorità (168). Quando si è centrati sul “punto zero” tutto si mette in collaborazione, anche la polarità principale: il bene e il male, il dio e il diavolo. Friedlander concepisce il sé come forza creativa universale” (73). Il vuoto fertile è il luogo terapeutico per eccellenza (164) (IGP)
In gestalt viene definito fertile in quanto luogo di possibilità e di cambiamento; è uno spazio in cui è possibile sperimentare, attraverso un gioco di identificazione e disidentificazione, tra vicinanza e distanza tra cliente e terapeuta, il passaggio da un vuoto sterile ad un vuoto fertile ricco di forza creativa e possibilità di cambiamento. La forza creativa di questo spazio, di questa distanza da abitare potrebbe essere paragonata a quella di “indifferenza cretiva”, una posizione in cui l’interesse del terapeuta si colloca quasi in equidistanza tra i due poli opposti, evitando una prospettiva unilaterale: otteniamo, così, un’intuizione molto più profonda della struttura e della funzione dell’organismo (IPGE)